A.A.A. - D.S.A. - Dislessia, un limite da superare

A.A.A. - D.S.A. - Dislessia, un limite da superare

giovedì 12 giugno 2014

DEMONE BIANCO


 Di GIACOMO CUTRERA

"una storia di dislessia"
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INDICE
01- DISLESSIA 7
02- L’ESAME 18
03- LE MEDIE 24
04- LA CLASSE 27
05- DISTRATTO 33
06- STUDIO A CASA 39
07- OMBRA 45
08- I VERI BULLI 51
09- DEMONE BIANCO 56
10- IL TRUCCO 59
11- JACK 62
12- IL TEMA 68
13- L’IGNOTO 76
14- NOME 82
15- DUE SETTIMANE 88
16- DUE VERIFICHE 94
17- MOTORE 99
18- MOVIMENTO 102
19- SCATTO B/H1 111
20- STRUMENTI 115
21- GIUSTIZIA 120
22- PARADOSSI 125
23- IL CUORE 131
24- NUOVE ALI 141
25- PROMESSE 145
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SCELTE TIPOGRAFICHE
Come noterete questo libro è scritto in modo poco
convenzionale:
i caratteri sono più grandi della
norma, l’interlinea è più robusto
e non è stata utilizzata la forma
giustificata. Queste sono scelte
motivate da una forte volontà di
rendere questo testo il più
leggibile possibile.
[ Giacomo Cutrera (3 anni) ]
I caratteri più grandi mostrano come un libro non sia
un ostacolo insormontabile.
Leggendo il racconto potreste pensare che questa
scelta sia spinta da una volontà di rendere il testo più
leggibile per i dislessici, ma non è solo questo il punto.
Un formato più leggibile è un aiuto non solo per chi è
dislessico, ma per tutti.
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Questo libro è dedicato a
mio fratello e alla sua forza
È dedicato a Riccardo che solo ora ha
scoperto la sua dislessia
È dedicato a tutti i ragazzi del
Forum Libero, del Campus
e del Gruppo Giovani.
Per farla breve
È dedicato ai dislessici
Forza ragazzi !
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DISLESSIA
Molta gente nella sua vita ha sentito questa parola e
tanti altri hanno scritto saggi e libri su di essa; alcuni
la definiscono una malattia, altri un problema, altri
ancora credono che sia la conseguenza di qualcosa di
poco definito e oscuro, ma la realtà è che nessuno è
in grado di definirla.
Attualmente molti scienziati si stanno adoperando per
cercare le cause della dislessia, ma per ora, non vi
sono risultati certi.
Molti insegnanti, dopo aver letto le quattro righe
precedenti, esprimono una certa perplessità; “Come si
fa a chiamare una persona dislessico se nessuno sa
che cos’è la dislessia?” Questa, a mio parere, è una
domanda tutt’altro che stupida e apprezzo molto le
persone che se la pongono con sincerità.
Ciò che invece trovo riprovevole è liquidare la
domanda con la risposta più diffusa ovvero “non si
può ”.
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In passato, quando ancora non si conoscevano le
cause fisiche della cecità, nessuno, di fronte a una
persona non vedente, affermava che tutti sono in
grado di vedere; questo perché, pur essendovi una
carenza sul piano scientifico, le persone attorno a lui
erano comunque in grado di notare il suo problema.
Lo stesso concetto vale, oggi, per i Dislessici.
Per rendere più comprensibile ciò che intendo dire
quando parlo di problema vi porrò un caso che trovo
abbastanza esemplificativo:
Un insegnante correggendo un compito in classe di 2°
media nota che un ragazzo ha completato solo due
facciate su quattro e rimane sorpresa nel notare che
le facciate complete sono quasi del tutto giuste.
In quel momento l’insegnante comprende che l’alunno
è intelligente, ma non capisce perché il ragazzino non
completa le sue verifiche.
Secondo voi è possibile che una persona studi alla
perfezione solo gli argomenti che si presenteranno poi
sulle prime facciate della verifica?
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I casi sono due: o il ragazzino è un genio del male
che, pur conoscendo gli argomenti, preferisce lasciare
metà compito in bianco per far impazzire la
professoressa;oppure siamo di fronte a un caso molto
più complesso.
Se la professoressa avesse potuto vedere la camera
del ragazzino il giorno prima avrebbe scorto tutti i libri
della sua materia e lo stesso ragazzino piegato su
essi in attenta lettura ormai da sei ore.
La professoressa non può vedere il passato e quindi,
fa quello che le hanno insegnato di fare quando un
alunno svolge meno del 50% di verifica giusta,
ovvero dà un insufficienza.
Il ragazzo in questione non vuole essere bocciato
perché, effettivamente, non ha lacune; ha studiato
tutto quello che gli era stato richiesto di studiare e
credeva di sapere bene gli argomenti.
Neanche lui capisce perché non è riuscito a finire la
verifica e ritornerà sui libri sperando di poter
migliorare incrementando le ore di studio.
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A volte alle persone piace illudersi e lui si illude di
poter imparare le cose meglio di quanto non le abbia
imparate fin ora, ma lui non ha un problema di
contenuti, lui le cose le sa.
Il suo problema deriva dal fatto che l’insegnante non
può valutare il suo sapere con metà verifica in mano,
le serve l’intero compito.
Grazie al suo studio e a qualche miracolo intermedio,
che spiegherò poi, il ragazzo riesce a essere
promosso con la valutazione SUFFICIENTE che gli
consentirà di passare alle superiori.
Solo allora un’insegnante troverà la soluzione al
dilemma della verifica mezza bianca.
Consegnerà in due volte distinte due verifiche sullo
stesso argomento:
Una da completare in 50 minuti (1 ora scolastica)
e una da completare in 100 (2 ore scolastiche).
I voti ottenuti dal ragazzo saranno rispettivamente
5 e 10.
Tutti fanno meglio una verifica se hanno più tempo,
ma nessuno prende dieci in una verifica nella quale
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senza il doppio del tempo avrebbe preso cinque e
soprattutto perché un alunno che potrebbe
potenzialmente prendere dieci si ferma a metà
verifica?
Mi rendo conto che la situazione può sembrare
assurda e anche io la giudicherei in questo modo se
non l’avessi vissuta di persona.
Alle scuole medie inferiori i professori mi dicevano che
serviva un costante studio di tre ore al giorno e io
continuavo a non capire perché a me ne servissero
sei.
Solo dopo un’ accurata analisi introspettiva, sono
riuscito ad associare questo fatto alla grande difficoltà
che riscontravo quando leggevo ad alta voce.
Mi resi conto che la mia capacità di lettura era pari
alla metà di quella degli altri e questo avrebbe
spiegato anche perché non riuscivo a finire le
verifiche.
Quando esposi la mia teoria ai miei familiari ricevetti
come risposta una sonora risata e tornai a studiare.
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Il problema pratico era però che non ero
concretamente più in grado di studiare.
Di fronte al libro di storia (a causa, anche, della grave
stanchezza) mi ritrovai incapace di decifrare le parole
che avevo visto poco prima. Ormai non vi erano più
dubbi, la mia era ed è una difficoltà nella lettura, ma
non potevo certo raccontarlo in giro, nessuno mi
avrebbe creduto.
Dovevo trovare un modo per risolvere il problema
delle verifiche e dovevo trovarlo da solo.
Valutai la situazione:
- Non potevo completare la verifica a causa della
difficoltà nel leggere le consegne e ciò che scrivevo.
- Facevo fatica a correggere ciò che scrivevo poiché
non avevo abbastanza tempo per rileggere il tutto
- Non potevo copiare
(riuscivo a malapena a leggere la verifica)
- Non potevo fare i bigliettini (stesso motivo)
Nei temi risolsi il problema scrivendo direttamente in
bella copia, omettendo così la lettura della brutta (che
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mi risultava praticamente impossibile ) ,ma nelle
comuni verifiche permanevano i soliti problemi.
L’unica soluzione che trovai consisteva nell’ eseguire
la classica metà della verifica e “sparare a botto”
(eseguire in modo casuale senza leggere le
domande) il resto.
Benché questa idea mi sembrasse colossalmente
stupida, applicandola riscontrai nei miei voti un
interessante incremento che portò gli insegnanti a
pensare che stessi studiando di più.
Le parole “Lo vedi… ti basta studiare un po’ e le cose
le capisci” furono per me più devastanti di tutte le
insufficienze ingiuste che avevo accumulato in quei
tre anni di medie. In quel momento compresi che i
professori non erano “fisicamente” in grado di valutare
il mio studio e che mi avevano sempre considerato
uno “scansafatiche”.
Se chi doveva valutare le mie verifiche non era in
grado di valutare significava che il mio studio era
sempre stato inutile come i consigli che loro mi
davano.
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L’ira prese il sopravvento su di me e dopo tanti anni
passati a testa bassa, subendo queste ingiustizie,
decisi di alzare lo sguardo e reagire.
Il mio rancore esplose in casa e in alcuni casi si
riversò anche a scuola.
Espressi apertamente quanto provavo in un tema, che
gli insegnanti apprezzarono pur non comprendendolo,
e infine mi trasformai in un essere freddo e
insensibile.
Pochi mesi dopo mi venne diagnosticata una dislessia
evolutiva che si manifestava in un disturbo nella
lettura.
Questa notizia non mi sorprese, ma convinse i miei
genitori che avevo ragione.
Si scoprì che la mia velocità di lettura era pari alla
metà della velocità di norma e, inoltre, il processo
della lettura stessa richiedeva uno sforzo energetico
notevolmente più alto di quello “normale”.
Approfondendo l’argomento scoprii che altre tipologie
di dislessici presentavano caratteristiche particolari.
Alcuni dislessici, oltre alla difficoltà nella lettura,
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presentano anche difficoltà nella scrittura(Disgrafia),
nell’ortografia (Disortografia) e nei calcoli (Discalculia)
Su questo punto ho notato una diffusa
perplessità:molti credono che una persona per essere
definita dislessica debba avere problemi nella lettura,
scrittura,ortografia, calcoli e linguaggio. In realtà basta
che una persona riscontri anche solo uno di questi
problemi per rientrare nei “disturbi specifici
dell’apprendimento” D.S.A.
(A volte i dislessici presentano da piccoli un disturbo
del linguaggio, questo non è il mio caso.)
Tornando alla mia storia :Poco dopo aver scoperto la
mia dislessia mi sono recato all’A.I.D.(Associazione
Italiana Dislessia ) e attraverso essa ho cercato
informazioni più dettagliate sul mio caso.
Sorprendentemente ho scoperto che il mio caso non
era affatto uno dei peggiori, basti considerare che
esistono dislessici con velocità di lettura pari a un
quinto di quella normale. Come potrete immaginare
una simile velocità di lettura impedisce, non solo lo
svolgimento delle verifiche, ma anche e soprattutto il
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vero e proprio studio a casa (calcolando che io stavo
ancora lottando per la sufficienza, la cosa destò in me
una seria preoccupazione).Nella associazione non vi
erano personaggi dislessici, ma solo genitori,
insegnanti e specialisti che hanno a che fare con il
problema. I genitori parlavano tra loro e descrivevano
la situazione dei loro figli e io ascoltando
comprendevo che la storia di questi bambini era in
tutto e per tutto identica alla mia. Loro avrebbero
potuto sforzarsi fino allo spasmo di imparare, ma
nessuno sarebbe mai stato in grado di valutarli
correttamente; i discalculici avrebbero sudato sangue
sulle tabelline per scoprire poco dopo la calcolatrice, i
disgrafici avrebbero eseguito milioni di lettere per
scoprire poco dopo la tastiera, i disortografici si
sarebbero sentiti ripetere miliardi di volte le regole
grammaticali prima di scoprire il correttore ortografico,
quelli come me avrebbero perso la propria vita sopra
un libro senza riuscire a comprenderlo e senza capire
che si può chiedere a qualcun altro (o qualcos’altro
nel caso del sintetizzatore) di leggertelo, ma


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soprattutto tutti costoro sarebbero stati trattati come
incapaci e fannulloni e presi dalla disperazione
avrebbero rinunciato ad imparare. Io non volevo che
la loro storia fosse la stessa che ho vissuto io e giurai
che, a costo di dovermi recare personalmente in ogni
scuola d’ Italia, avrei fatto in modo che gli insegnanti
capissero il problema e che mi sarei impegnato
personalmente per fare in modo che anche ai
dislessici sia data la possibilità di apprendere.
Questa è la forza che guida la mia mano e spero che
questa storia possa trasmetterla a voi.
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L’ESAME
Nella foga di parlarvi della dislessia ho dimenticato le
buone maniere…
Mi chiamo Giacomo Cutrera, sono un ragazzo di 19
anni che vive a Brescia vicino al centro della città.
Sono un ragazzo che, come tanti, sta tentando
faticosamente di passare l’esame di maturità.
La mia storia non è straordinaria, né particolarmente
avvincente, è una storia molto comune, ma allo stesso
tempo sconosciuta, quindi è bene che ve la racconti
comunque.
Siamo nel 2002, l’Italia ha perso contro la Corea( dal
mio professore definita come una squadretta da
oratorio ) tutto il paese ha la testa nel pallone e dalla
strada si sente gente che grida frasi improponibili.
Quel giorno io non avevo la testa nel pallone per i
mondiali, ma per l’esame di terza media che ricordo
ancora come se fosse ieri: il corridoio del secondo
piano era pieno di gente che passeggiava
nervosamente avanti e indietro nel tentativo vano di
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accelerare il flusso di sangue al cervello e ricordare
meglio le cose studiate la sera prima e dimenticate
all’alba.
Io aspettavo seduto sugli scalini con la schiena curva
e la mano che sorreggeva la testa troppo pesante per
stare su da sola, posizione per me tutt’altro che
inconsueta.
In quei giorni credevo che, guardandomi allo
specchio, avrei addirittura potuto vedere del fumo
rosso uscire dalle mie orecchie, tanto era il male che
sentivo dentro.
L’unica cosa che mi rincuorava era che presto
sarebbe finita.
I miei compagni entravano ed uscivano da quella
porta e ben presto rimasi solo io ad aspettare.
Il professore uscì e mi guardò:- tu sei l’ultimo? -
chiese - …bene, così dopo possiamo andare tutti a
mangiare, che è tardi.-
Benché l’argomento nutrizione sia, senza dubbio, un
elemento vitale della vita umana, in quel momento
mangiare era l’ultimo dei miei problemi.
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Entrai nella stanza dove erano disposti tutti i miei
docenti e, dando una rapida occhiata in giro, notai che
ero circondato.
Mi piazzai di fronte alla professoressa di italiano che
fu la prima a chiamarmi e a chiedermi di esporle
l’argomento che avevo deciso di trattare.
Mi ero preparato e non ebbi problemi a parlarle della
seconda guerra mondiale, anche se adesso non mi
ricordo bene cosa avessi detto di preciso.
Mentre le parlavo, gli altri docenti attendevano e altri
ancora frugavano nelle loro cartellette alla ricerca di
alcuni fogli scritti da me.
Nel frattempo la professoressa di tedesco mi chiamò
per pormi alcune domande.
Mi disse una frase in tedesco che nessuno degli altri
professori comprese e io rimasi zitto, annuendo
semplicemente.
Probabilmente lei è uscita da quella stanza nella
convinzione che io non avessi capito quanto aveva
detto, ma non era così.
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Infatti mi aveva semplicemente fatto vedere un errore
commesso nelle prove scritte, una domanda
sull’uomo del Similaum, che eravamo andati a vedere
al museo di Bolzano.
In sostanza la domanda era:
Dove si trova l’uomo del Similaum?
Risposta: nel museo di Bolzano.
Io avevo letto male e capito così:
Dove è stato trovato l’uomo del Similaum?
Di conseguenza risposi: è stato trovato nel Similaum,
alta montagna.
La professoressa mi fece notare quell’errore, annuii
semplicemente perché non era una domanda e non
c’era nulla da rispondere.
Senza calcolare il fatto che quella era la parte orale
dell’esame e non ho ancora capito perché bisognasse
andare ad infierire ancora sulla parte scritta.
I docenti rimasero in silenzio per un minuto buono
prima che cominciassero a partire la classiche frasi di
circostanza:sei troppo distratto… fai errori stupidi …
Non sei stupido, devi solo imparare a studiare…
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Poi, visto che si era entrati in argomento, la
professoressa di artistica prese un mio disegno (una
natura morta) e, mostrandolo agli altri docenti, mi
chiese perché non l’avevo finito, perché non l’avevo
colorato.
Poi il discorso proseguì senza di me: i professori
osservarono il disegno e riaffermarono la loro tesi.
Secondo loro io avevo grandi potenzialità, ma non mi
impegnavo abbastanza. A sproposito utilizzarono il
termine “Genio incompreso”.
Lo dissero in chiave ironica, ma io lo vivevo
diversamente: io non credevo di essere un genio, ma
di sicuro mi sentivo incompreso da loro.
La professoressa di italiano riprese la parola e mi fece
ancora qualche domanda inerente gli argomenti
trattati durante l’anno e, per ultimo, mi chiese il perché
di un paio di frasi scritte in un tema di carattere
personale:- “Ho 13 anni e mi sembra che non ho
ancora potuto vivere”.
È ancora valida questa frase per te? -
La mia risposta fu: - No… ora ne ho 14.
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quella fu l’ultima cosa che dissi, poi rimase solo un
breve silenzio, il tempo di osservare se qualcun altro
avesse domande da pormi, ed emettere la frase
conclusiva - Puoi andare. -
Uscendo dalla stanza lasciai basso lo sguardo come
mio solito, ma solo per il tempo che basta per
rendermi conto della mia situazione.
Non vi dirò quello che ho pensato, ma due secondi
dopo ho sceso di corsa le scale, che conducevano
all’uscita, e (mentre facevo l’aeroplano con le braccia)
ho urlato “Libero”.
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LE MEDIE
Le vacanze mi attendevano e, dopo esse, sarebbero
arrivati i giorni delle superiori.
Tutto sarebbe cambiato e avrei potuto dimenticare
quei tre anni, ma in quel momento i ricordi erano
ancora vivi e freschi.
È incredibile e, in qualche modo triste, che quelle
memorie non siano ancora state rimosse dalla mia
mente: ho moltissimi ricordi di eventi assurdi e
ricorrenti, nulla di “pirotecnico”, nulla di chiaro e
palese, solo una lunga serie di situazioni che io avevo
la sfortuna di comprendere, eventi sopra i quali gli altri
parevano ostentare una sadica indifferenza. Facevo
fatica a leggere e questo mi creava non pochi
problemi nello studio, ma non era il tempo che
passavo sui libri a farmi morire dentro.
È stata la consapevolezza a distruggermi, la
consapevolezza di non avere niente in meno rispetto
ai miei compagni e la consapevolezza di non essere
né svogliato e tanto meno ritardato.
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La coscienza di essere intelligente e di aver sempre
studiato mi ponevano dalla parte del giusto, ma i voti
che il mondo, come il giudice di un grande tribunale,
mi dava erano su di me come un pollice verso:
condanna. Alla luce di ciò, che impressione del
mondo poteva farsi un ragazzino di undici anni se non
quella che mi sono fatto io? L’impressione di un
mondo ingiusto, falso e bugiardo che dice di volerti
aiutare, ma non fa altro che pugnalarti con la sua
arma più potente: il menefreghismo.
Ci tengo a precisare che oggi non nutro più alcun
rancore nei confronti dei miei docenti, che considero
meri strumenti di un pensare collettivo che prescinde
dal loro arbitrio.
Loro consigliavano, parlavano e valutavano, senza
però avere gli adeguati mezzi per farlo ed è per
questo che hanno commesso i gravi errori che ora
rimprovero loro.
Non parlo di loro per demonizzarli, ma reputo
necessario farlo, per evitare che altri docenti nella loro
stessa situazione vivano il dispiacere di commettere i
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medesimi errori. Per la fiducia in loro, che nonostante
tutto mantengo, mi sento di parlare anche a loro
nome, quando lancio l’appello per far sì che la
disinformazione svanisca e che la valutazione di un
dislessico non sia più lo sproloquio di una giustizia
bendata, ma senza bilancia. Questa è la lotta che
riempie l’inchiostro di queste pagine e spero vorrete
perdonarmi se ve la presento con eccessivo fervore.
Oggi la dislessia è più conosciuta e ciò che mi è
successo non avviene più, perché la gente in
generale e i docenti in particolare, sanno di più, sono
più informati. Io spero che sia veramente così, anche
se credo che ci sia ancora moltissimo da fare sul
fronte dell’informazione. Per questo motivo, nelle
prossime pagine, vi descriverò le situazioni più
emblematiche che riaffiorano dalla mia mente,
sperando, come ovvio, che vorrete coglierle e
confrontarle con il vostro vissuto.
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LA CLASSE
Nell’anno 1999 ho lasciato i miei amici delle
elementari, per frequentare un corso bilingue alle
medie.
Se commentassi questa scelta sarei poco riverente
nei miei confronti quindi mi asterrò dal farlo.
I fatti sono semplici: ero uscito con una valutazione
ottima dalle elementari e alla domanda che posi alle
mie maestre sulla scelta o meno del bilingue ebbi
come risposta “Tu puoi fare qualsiasi cosa vuoi”.
Galvanizzato dai risultati che fino ad allora (e
sottolineo fino ad allora) avevo sempre ottenuto, optai
per quel corso.
Dal primo giorno di medie compresi le conseguenze di
tale scelta: i miei compagni delle elementari non
avevano i miei voti e non volevano addentrarsi in una
cosa simile, di conseguenza rimasi praticamente da
solo in una classe della quale conoscevo ben poche
persone.
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Non posso lamentarmi della mia classe poiché era
molto eterogenea: “secchioni”, “simpatici
mattacchioni”, “aspiranti zitelle acide”, ma anche
ragazzi e ragazze che tutt’ora stimo e rincontro con
piacere.
In conclusione la mia era una classe normale sotto
l’aspetto umano e leggermente sopra la media per
quanto riguarda il rendimento.
Ovviamente quando parlo di rendimento non parlo di
me: inizialmente le mie conoscenze acquisite alle
elementari mi hanno consentito di stare a galla e
mantenere il ritmo degli altri, ma l’effetto si esaurì a
metà del primo anno e cominciò quello che chiamo il
gioco dell’umiliazione.
Il discutere apertamente di questo continuo calare dei
miei voti, la ricerca (con domande apparentemente
ovvie) del perché non riuscissi a raggiungere il livello
degli altri, erano la routine di quegli anni.
Un giorno, paragonando il mio compito con quello di
una mia compagna: “ Lei è più intelligente di te ?” mi
chiesero retoricamente “NO… allora sai perché lei
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prende voti migliori dei tuoi ?” Aggiunsero poi la
risposta che ritenevano ovvia: “Perché studia di più, si
impegna di più”.
Se fossi stato attento al giudizio della classe, in quel
momento sarei rimasto in silenzio inabissando la
verità.
Avrei potuto lasciare credere loro che io fossi davvero
uno scansafatiche, una posizione sicuramente più
ambita rispetto a quella di scemo della classe.
Avrei potuto stare zitto, ma non l’ho fatto, ho detto
chiaramente al professore che studiavo due ore fisse
al giorno e ottenni una risposta stizzita come se
l’impertinenza fosse partita da quella mia
affermazione.
“Evidentemente non hai capito come si studia” mi
dissero allora e questa fu solo la prima delle risposte
assurde che mi sono state date.
Cosa significa “imparare come si studia”?
Se io fossi un vocabolario direi che il modo che usavo
per studiare consisteva in tre chiari passaggi:
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1- Munirsi di un adeguato supporto cartaceo
contenente le informazioni (prendere il testo )
2- Effettuare la conversione grafema/fonema (leggere)
3- Assimilare l’argomento (capire e ricordare)
Questo era il mio modo di studiare ed era il modo
utilizzato da tutti i miei compagni di classe, alcuni dei
quali studiavano meno di me e prendevano, per beffa,
voti migliori.
Questa frase, vista con il senno di poi, può sembrare
un aiuto, una spinta a cercare metodi che non
implichino la lettura, ma tutti sappiamo che non era
ciò che questa frase sottintendeva. I professori
credevano che studiassi con la musica nelle orecchie
o mentre guardavo la TV, in conclusione avevano la
convinzione che studiassi per finta: in pratica
ribadivano il concetto che dovevo studiare di più e
meglio. Ogni mio tentativo di andare a fondo nella
faccenda, ogni mia richiesta di capire, con l’aiuto che i
docenti dicevano di volermi dare, naufragò e anche i
miei compagni cominciarono a prendersi beffa di
questo mio continuo affermare ciò che loro ritenevano
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impossibile. I miei compagni, in rare occasioni, mi
presero ufficialmente in giro e, conoscendo altre
situazioni di dislessia, posso dire che mi è andata
ancora bene, ma era praticamente impossibile da
parte mia non sentire l’isolamento a cui ero costretto.
Dal momento in cui i miei voti cominciarono a calare,
smisero di chiamarmi nel loro gruppo quando si
facevano i lavori collettivi e, di conseguenza, mi
trovavo sempre in coppia con l’altro della classe che
aveva la media appena sufficiente.
Ciò avveniva in tutte le attività di gruppo, compresi i
dialoghi di inglese e tedesco, di conseguenza non ho
sviluppato particolare affinità con la classe né ho
potuto far tesoro dell’aiuto dei miei compagni.
L’isolamento si faceva più forte ogni giorno che
passava, complice anche un apparecchio ortodontico
(che non a caso fa rima con mastodontico) che mi
dava un fastidio terribile e che spaccavo nei momenti
di maggiore nervosismo.
Il terzo anno la mia comunicazione con la classe si
ridusse al minimo e, la maggior prova di ciò, è data
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dal fatto che mi piazzarono nel primo banco, in mezzo
ai due pakistani che non parlavano una parola di
italiano, e la cosa parve come naturale di fronte a quel
mio atteggiamento che si era conformato ad un
serrato mutismo. Io non incolpo i miei compagni di
nulla, ma ribadisco di non aver potuto stringere
amicizie all’interno della scuola. Ho potuto apprezzare
alcuni di loro successivamente: come persone e come
amici, altri li ho persi di vista e altri ancora mi salutano
con il sorriso sulle labbra.
Io non so cosa significhi questo, ma sicuramente avrei
voluto vivere queste amicizie cinque anni fa.
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DISTRATTO
Le verifiche: fulcro di ogni cosa e l’origine di ogni mio
problema.
Ora non pensiate che le mie verifiche fossero
particolarmente difficili, tutt’altro.
Erano spesso abbordabili, con domande
relativamente semplici, ma la forma con cui erano
proposte era, per me, un vero e proprio imbroglio.
Ricordo le prime verifiche che eseguivo
ordinatamente partendo dalla prima facciata,
leggendo e rispondendo, come chiunque altro
avrebbe fatto al mio posto.
Puntualmente arrivavo a metà dell’ora con un’unica
facciata completa e, quando osservavo le altre tre
vuote, era tempo di correre.
Cominciavo a leggere rapidamente il testo e a
rispondere in modo grossolano per riuscire, quanto
meno, ad arrivare a fine compito.
Il risultato di queste prime verifiche era appena
sufficiente se lo calcoliamo a livello globale, ma se
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entravo nel particolare vedevo che la parte eseguita
senza ansietà, era praticamente del tutto corretta.
Nelle altre tre facciate, al contrario, era un vero
“macello” di segni rossi, che spesso indicavano che
non avevo compreso la consegna o che avevo
commesso errori dovuti alla distrazione.
Sommariamente la parte svolta in modo caotico era
corretta per 1/3 e ciò, a mio parere, era dato dal fatto
che l’avevo svolta con una velocità pari al triplo di
quella con cui avevo eseguito la prima facciata.
La questione mi parve subito ovvia e alla domanda
dei miei genitori: “perché hai sbagliato questo
esercizio, che è uguale a quello che abbiamo fatto ieri
come compito per casa?” la mia risposta era “l’ho fatto
di fretta perché non ho avuto tempo.”
Ripensandoci oggi, pare assurdo che nessuno mi
abbia minimamente dato retta, ma ragionandoci non è
difficile capire il perché di tale atteggiamento.
I professori vedevano errori dovuti alla distrazione e
consegne interpretate in modo errato e per loro la
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“diagnosi” era chiara: “Il ragazzo è distratto durante
le verifiche”.
È possibile che si sia messo a guardare intensamente
il muro, oppure una sua compagna o che abbia
osservato le farfalle che passavano davanti alla
finestra”. Ora con tutto il dovuto rispetto per
l’avvenenza delle mie compagne, la prorompenza del
muro e il fascino delle farfalle, mi sento di dire che in
quel momento erano l’ultima delle mie
preoccupazioni.
Secondo voi chi passerebbe tre ore della sera del suo
compleanno a studiare tedesco per poi entrare in
classe e guardare le farfalle come Bambi il cerbiatto?
(Con tutto il rispetto anche per lui ovviamente)
Al momento della verifica la mia concentrazione era
puntata sulla prova, come lo sguardo del leone è fisso
sulla gazzella, perché farla bene era la mia possibilità
di tornare a casa con un bel voto, sedermi a tavola e
mangiare senza che lo stomaco mi si chiudesse di
fronte ai rimproveri per gli scarsi risultati.
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Riprendendo l’esempio del leone “Quella verifica era
la mia cena”.
In quei momenti nulla avrebbe potuto scollare la mia
attenzione dalle verifiche (fatta eccezione per
l’apparizione della Madonna che sarebbe, come
sempre, stata gradita).
Io ero la persona più concentrata di questo mondo e
avevo bisogno di spremere tutti i miei neuroni per
riuscire decifrare quelle lettere, per comprendere il
brano o l’esercizio.
Senza concentrazione non sarei riuscito a leggere.
Questo concetto per me era chiaro e palese, ma
purtroppo lo era solo per me.
I professori, la famiglia e, in generale, la gente,
concordava nel definirmi distratto, perché era, in fin
dei conti, la soluzione più semplice e sbrigativa a
quella situazione anomala.
Quella definizione era soddisfacente e tutti sapevano
come sgridarmi, ma io non potevo far cessare quei
rimproveri, io non potevo fare nulla.
37
Sicuramente ricorderete cosa avete provato quando
qualcuno, per la prima volta, vi ha sgridato
accusandovi di una colpa non vostra, qualcosa che
non avevate fatto. Bene, ora pensate di ricevere
quello stesso rimprovero ogni giorno e di avere la
consapevolezza che sarà così per sempre.
Io non so se il termine corretto per definire ciò che
provavo sia “impotenza di fronte alla vita” o
“consapevolezza di vivere in un mondo crudele,
immobile e beffardo”, ma credo che non potrei definire
quel periodo senza menzionare la parola “ingiustizia”.
L’ingiustizia è la madre di tutti i mali perché subendola
nascono l’ira, lo sconforto e il desiderio di vendetta.
Mali insaziabili perché incapaci di cancellare
l’ingiustizia che li ha generati.
La mia capacità di giudizio di fronte a questa
situazione mi aveva già chiaramente suggerito di
lasciare tutto, tirare i remi in barca e smettere di
lottare per una situazione che comunque non sarebbe
cambiata, ma quella sufficienza risicata che riuscivo a
raggiungere mi teneva in vita, come quel dannato che
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continua a spingere un masso fino alla cima della
montagna, per poi vederlo rotolare e comprendere
che tutto è stato inutile.
La speranza mi ha spinto a cercare in tutti i modi una
soluzione che la ragione urlava essere impossibile,
assurda. Accettai i rimproveri che giorno dopo giorno
ricevevo, provai tecniche nuove per focalizzare meglio
la mia attenzione sulla verifica e mi isolai per dare la
prova tangibile della mia ferma attenzione.
Volevo capire, volevo migliorare, volevo che la scusa
del “ragazzo distratto” non esistesse più e che i
professori cercassero la vera motivazione.
Volevo che mi guidassero a comprendere perché non
riuscivo a completare le verifiche.
Non potevo lottare contro qualcosa che non
conoscevo e non potevo concentrarmi di più.
Volevo e dovevo trovare una via d’uscita.
39
STUDIO A CASA
Dai colloqui successivi a quelle verifiche disastrose,
emerse un semplice concetto: studiare di più e
meglio.
Come già detto precedentemente io non posso
definire “studiare meglio”una frase sensata.
Posso studiare di più, dedicare più tempo a fare
schemi, riassumere l’argomento, ripeterlo ad alta
voce, ma quando arrivo a conoscere alla perfezione
quella tematica, come posso fare di più.
Inizialmente studiavo per due ore circa e mi parevano
parecchie rispetto allo standard delle elementari, ma
in seguito ai voti scarsi i miei genitori mi spronarono a
fare di più.
Passai da due a quattro fino a sei ore di studio,
polverizzai ogni sorta di rapporto amicale o sociale
per riuscire a prendere qualche dannatissimo “buono”,
ma tutto fu inutile.
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In una giornata dove lo studio inizia alle 2 e finisce
alle 9 (con un ora di pausa per cenare) non si trova
spazio per nulla, neanche per il rancore.
Non mi pento delle rinunce che ho fatto in quel
periodo, ma sono triste ed amareggiato al pensiero
che siano state tutte inutili.
I miei voti non sono cambiati di una virgola e
sarebbero rimasti tali per i due anni successivi.
Mia madre per tre anni si è recata ai colloqui e ha
ricevuto sempre la medesima indicazione ripetuta con
il tono di chi parla a un sordo: “Dica a suo figlio che
deve studiare di più”.
Mia madre affermava che io studiavo, ma le sue
parole probabilmente si sgretolavano prima di entrare
nell’orecchio del suo interlocutore.
Tutto ciò che rimaneva era la valutazione dei compiti
in classe, frutto di quella immensa follia.
Erano i compiti in classe a decidere del mio
pomeriggio, spesso triste, beffardo e monotono.
Il ritorno a casa con la verifica da portare firmata era il
trascinarsi di un ragazzino senza più forze che aveva
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dato tutto nella mattinata e aspirava solo ad un
sacrosanto riposo.
La mia stanchezza non era solo fisica, provavo quella
densa sofferenza di chi aspetta l’esito della verifica,
sperando in una qualche rivalsa e vede come risultato
la solita insufficienza: statica, immutabile, ma sempre
più crudele.
All’inizio dell’anno l’insufficienza è l’esito di un
compito, agli occhi di un docente, ma alla fine
dell’anno quella insufficienza viene intesa come un
rifiuto di migliorare, menefreghismo allo stato puro e,
di conseguenza, i docenti non avevano problemi ad
elargire rimproveri ridondanti, che mi abbattevano
nella mia impossibilità di rispondere.
Così tornavo a casa sconfitto con la bocca serrata,
non solo per nascondere l’apparecchio, ma,
soprattutto, perché era incapace di estendersi in un
sorriso e, anche oggi, riscontra una discreta fatica in
questa pratica.
La mia schiena era ricurva, sotto il peso di quei libri
che non mi avevano salvato dall’insufficienza.
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Rientro a casa, appoggio lo zaino a terra e, da quel
momento, osservo me stesso da lontano, come
spettatore di un film già visto prevedendo le
successive mosse dei componenti della mia famiglia.
Mio padre è al lavoro e tornerà per ora di cena, mia
madre aspetterà circa cinque minuti, nei quali mi
parlerà delle ultime cose e poi mi porrà la domanda
che mi riporta a ciò che realmente è la mia vita:
“Come è andata a scuola?”
La risposta trasparirà limpida dalla mia incapacità di
mentire e la conseguenza sarà un lungo sorbire di
lamentele, polemiche monodirezionali, paternali e
prediche.
In conclusione, dal momento in cui prendevo in mano
la forchetta e iniziavo a mangiare, le mie orecchie
erano impegnate in quell’unico discorso che non
poteva condurre a nessuna soluzione.
Studiare dalle 2 fino ad ora di cena, per poi informare
mio padre del voto e vedere in lui lo stesso
atteggiamento di mia madre, gli stessi discorsi, le
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stesse parole espresse con tono più forte e con il
rancore di chi vede che non lo stai ascoltando.
Era vero, non ascoltavo, ma non solo perché era la
terza paternale del giorno, ma soprattutto, perché
avevo appena finito di studiare e in me era
particolarmente forte la consapevolezza
dell’impotenza del mio agire e dell’inutilità del loro
sforzo di rimprovero.
Avevo preso un’insufficienza e avrei continuato a
prendere voti simili purtroppo, ma non potevo fare più
di quanto già non facessi.
La sera i miei si piazzavano al mio fianco e, con un
misto di rancore e benevolenza, rivedevano con me
quegli argomenti constatando la mia effettiva
conoscenza.
Arrivavano le nove, a volte le dieci (quando rientravo
dal pomeriggio a scuola) e andavo finalmente a
dormire.
Io rimprovero questo comportamento ai miei genitori,
rimprovero loro di non avermi ascoltato e di non
essere riusciti a capire quanto soffrissi in quel periodo,
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ma non posso fare a meno di ricordare che erano loro
a passare davanti al mio letto per darmi il bacio della
buona notte.
Era quell’affetto a farmi comprendere quanto
tenessero al mio futuro.
Per questo motivo quei voti contavano così tanto per
loro, per quello stesso motivo erano importanti per
me.
Così, alla fine di quelle giornate, riprendevo forza e mi
preparavo con fragile speranza al giorno successivo.
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OMBRA
Molto spesso quando si parla di sofferenza si tende
ad estremizzare con metafore belliche il proprio
dolore.
Alcuni scrittori descrivono una vittima profondamente
ferita da una lancia, paragonando ciò al profondo
dolore che amano definire psicosomatico.
Io provavo sofferenza, dolore fisico e mentale, ma non
potrei paragonare questo male ad una lancia che
trafigge.
Potrei paragonare il mio dolore ad un martello che
colpisce allo stomaco con intervalli regolari, potrei
paragonarlo a braci ardenti scagliate altrettanto
regolarmente negli occhi e percosse che fanno della
tua testa un macigno.
Occhi, capo e stomaco, questi erano i tre punti dove
la mia frustrazione andava a riversarsi.
Spesso questo dolore, questo malessere profondo e
radicato mi ha provocato profondi problemi nelle
interrogazioni che dovevo comunque affrontare,
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anche se lo stomaco mi piegava in due, la testa mi
pesava sulle spalle e gli occhi mi bruciavano
terribilmente.
Non volevo continuare a star male, ma non avevo
certo i mezzi per risolvere un problema simile.
Non potevo entrare nelle menti dei docenti e chiarire
loro che qualcosa di strano doveva pur esserci.
Com’è possibile, mi chiedevo, che tutti i miei
compagni riuscissero a sopportare la stessa cosa
senza batter ciglio, come potevano reggere a tutte
quelle ore di studio senza rimanerne segnati?
Ragionai su ciò e giunsi a due possibili conclusioni:
o erano particolarmente svegli e riuscivano a
sopportare tutta quella fatica agilmente o, più
verosimilmente, studiavano meno e, per questo
motivo, erano meno stanchi.
“Ma allora perché prendevano voti migliori?”
“Erano meglio di me?”
“Probabile”, pensai… non avevo i mezzi per confutare
una simile idea, ma potevo riflettere su un'altra
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questione più spinosa.
In alcune occasioni mi era stato detto “o sei stupido, o
non studi: non vi è altra spiegazione”.
Questa frase mi spinse ad un profondo ragionamento
e, all’argomento spinoso che vi ho accennato:
“Sono stupido?” mi chiesi, “potrei esserlo?” ripensai,
prima di arrivare alla ovvia risposta:“no, purtroppo no”.
Se io fossi stato stupido, non mi avrebbe provocato
tanto dolore quella situazione, non avrei provato il
senso di ingiustizia che prova chi ha la conoscenza
degli argomenti e non può vedere premiati i suoi
sforzi.
Se io fossi stato stupido i miei professori non
avrebbero insistito, non avrebbero rimarcato la
necessità di farmi studiare di più.
“Tu non sei stupido” mi dissero più volte, “sei solo
affetto da una grave malattia detta Lazzaronite”.
Lazzaronite? Parola che deriva da Lazzarone,
equivalente di lavativo, nulla facente, essere votato
all’ozio. Osservando esempi come questi, potete
intendere quale fosse il mio disorientamento di fronte
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a professori che, affermavano la mia intelligenza e,
nel contempo, dichiaravano un concetto
completamente assurdo e sconnesso dalla realtà che
vivevo. Non potevo fare a meno di ricercare una
risposta, una soluzione al dolore che provavo o,
almeno, uno spiraglio che potesse darmi la coscienza
di una possibile via d’uscita.
Mi fermai a riflettere e feci di questa riflessione lo
strumento per controllare il mal di testa e il fuoco agli
occhi, pretendendo da me stesso ciò che non oserei
pretendere da nessuno: il completo controllo delle
emozioni.
Azzerai ogni sentimento, chiudendo il mio cuore in
una prigione di ghiaccio infrangibile.
Non volevo che il mondo potesse ferirmi, volevo
essere più forte di lui, volevo essere freddo e
imperturbabile come un demone di ghiaccio, ma
questo non poteva bastare.
La mia corazza poteva essere la più robusta di questo
mondo, ma le ferite che mi erano già state inferte
avrebbero continuato a sanguinare sotto di essa.
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Il mio cuore non poteva resistere in una gabbia di
ghiaccio poiché la solitudine non può che essere un
artificio creato dal dolore.
Avevo bisogno di chiudere tutto ciò in un contenitore
robusto, dovevo imprigionare quella sofferenza per
conservare la sua essenza e liberare nel contempo il
mio cuore martoriato. In questo modo, e con questi
obbiettivi, cominciai a scrivere
“Galvarious, la leggenda dell’angelo della furia”.
Non potevo tenere un diario, né esprimere
palesemente concetti simili a quelli che vi sto
narrando, perché nessuno mi avrebbe creduto e avrei
solo peggiorato la situazione.
Quindi li mascherai con metafore incastonate in un
racconto fantasy che trattava di angeli e guerrieri.
Ho riempito circa tremila pagine scrivendo con impeto
e furia, ma non sarebbero bastate diecimila agende
per racchiudere tutto ciò che nel silenzio avevo
pensato, ciò che nel silenzio avevo covato.
Scrivendo attivai un meccanismo psicologicamente
chiamato “introspezione”.
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Mentre scrivevo aumentava la mia capacità di mettere
insieme parole e concetti che fino ad allora avevo
rinunciato ad esprimere.
Ripresi le tappe della mia vita scolastica per
comprendere l’origine della devastazione che aveva
colpito i miei voti e la mia vita.
Come stupidamente si tende a fare, cercai un
responsabile, entità malvagia da sconfiggere per
recuperare la bellezza della serenità, ma più scavavo
più mi accorgevo che tale responsabile non poteva
essere rappresentato.
Era un essere senza volto e senza nome, un'ombra,
un mistero.
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I VERI BULLI
Esistevano momenti dell’anno in cui mi sentivo libero,
leggero, lontano da quel mondo che mi riduceva ad
un essere scolasticamente inservibile.
Le feste: il Natale, la Pasqua, le vacanze estive, erano
per me la fonte della vita vera, la vita oltre la scuola.
Durante le vacanze ero un ragazzino come tanti altri,
giocavo come tutti e non ero inferiore a nessuno.
Molti miei amici ricordano ancora il mio modo di
giocare a calcio: tirano indietro la testa e strizzano gli
occhi, ripensando agli interventi da macellaio che
facevo sulle caviglie.
Non ero abile nel dribblare e non riuscivo a far più di
tre palleggi, ma in campo nulla poteva spaventarmi.
Un giorno mi dissero “Più l’avversario è imponente,
più grande è lo stimolo che provi a contrastarlo” e
questa frase fu l’unica dalla quale mi sentii realmente
rappresentato.
Io avevo un sacco di difetti nei giochi di squadra, ero
scoordinato nei movimenti e non avevo tecnica, ma
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non provavo paura di fronte a niente e a nessuno,
sapevo incassare nel gioco così come sapevo
incassare nella vita.
Sul campo dell’oratorio, in montagna e nei parchi, la
vita mi sfidava e io lottavo ad armi pari, così come
lottavano i miei amici e i miei compagni, ma a scuola
ero un soldato senza spada, senza lancia e senza
scudo.
Mi rendo conto che può apparire eccessivo
considerare la scuola come elemento esterno alla vita
reale, ma in quegli anni il cancello verde di quel cortile
era, per me, la porta che separava due mondi opposti,
contraddistinti da regole differenti, da leggi differenti
che danno origine a due differenti forme di giustizia.
Ciò che era male fuori dalla scuola era visibile a tutti,
ma dentro di essa solo i miei occhi riuscivano a
percepire certe ingiustizie e ciò significava lottare da
solo.
Mi rendo conto che tale concetto può risultare difficile
quindi cercherò di lasciarvi un piccolo esempio.
Durante le vacanze un ragazzo più grande si mise a
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fare il bullo con me e i miei amici e mia madre mi
disse che non dovevo subire in silenzio, ma parlarne
con gli animatori o, in generale, con qualcuno di più
grande.
“Qualcuno di più grande”... è strano pensare che
qualcuno più grande di me potesse fare il bullo e che,
qualcuno ancora più grande, potesse proteggermi.
Nella scuola non valeva questo principio.
Tutti coloro che erano più grandi di me, docenti,
genitori e parenti, erano contro di me e la loro pretesa
di aver ragione, la loro pretesa di definirmi lazzarone,
non era differente dalla pretesa di quel insulso
bulletto.
“Non è l’età a donare la saggezza, ma l’esperienza
che la vita dà” e in questo io credo fermamente.
Vorrei concludere il capitolo con questa frase ad
effetto, ma scommetto che volete sapere come è
andata a finire la questione del bullo.
Beh, diciamo che ho commesso un errore, non mi
sono comportato come avrei dovuto e invito chiunque
legga a non seguire il mio esempio.
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Un giorno, mentre giocavo a pallone con i miei amici,
quel ragazzo si presentò con alcuni suoi coetanei al
seguito.
Ci intimarono di lasciargli il campo e di andarcene, ma
noi proponemmo una differente soluzione: una sfida.
Noi contro loro, su quello stesso campo, fino ai
cinque.
Loro accettarono e non si risparmiarono.
Io mi posizionai in difesa e diedi sfogo al mio impeto,
affrontando il mio avversario come ero solito fare.
Perdemmo rovinosamente, ma quel bullo conobbe la
mia capacità di “falciare” e, anche dopo la vittoria,
proseguì il suo monologo di bestemmie contro me e il
mio modo di “giocare”.
Io camminavo dandogli le spalle e non mi curavo di
lui, ma lui proseguiva insultandomi con ogni mezzo
esistente.
Non mi scalfì; il mio autocontrollo era troppo stabile
per lui, quindi ad alta voce lanciò un poderoso insulto
contro mia madre.
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Il mio animo pulsò insieme alle vene e i nervi strinsero
la mia schiena curva, raddrizzando tutta la colonna
vertebrale fino alle ossa del collo e così alzai per la
prima volta il capo.
I miei occhi stretti fra le sopracciglia e il naso, erano
fissi e determinati. Mi voltai e mi scagliai contro di lui.
La forza, come la saggezza, non è data dall’età, ma
dall’esperienza e la mia esperienza mi consentì di
sfruttare la sua accelerazione per ribaltarlo a terra,
bloccargli braccia e gambe finché non avesse voluto
chiedermi scusa.
Quello di allora fu uno sbaglio perché cedetti alla furia,
ma in fin dei conti avevo poco più di 13 anni e una
ragazzata penso possiate concedermela.
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DEMONE BIANCO
Gli amici che videro il mio volto furente in
quell’episodio, fecero ciò che tutti i ragazzi fanno
quando devono riportare a voce un avvenimento.
Di bocca in bocca quell’episodio si arricchì di
particolari estrapolati da mitologia e fumetti.
Il ragazzo che, avevo atterrato, di racconto in
racconto, cresceva di altezza e corporatura.
Potete immaginare quanto assurdo potesse apparire
ai miei compagni quel racconto “ingigantito” che
narrava di un ragazzino che con un dito sollevava e
ribaltava un gigante di due metri e mezzo
decisamente palestrato, il quale, per giunta, era al
comando di una banda di motociclisti dotati di
spranghe e catene.
Immaginatevi l’effetto di un racconto tanto distante
dalla realtà e capirete perché, qualche mio amico,
arrivò a chiamarmi Demone Bianco.
Bianco come ero io quando stavo chino di fronte ai
libri, mite di fronte alla vita, ma anche Demone furioso
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come apparivo dai racconti assurdi che mi avevano
costruito attorno.
Sorrisi di ciò e continuai a studiare, ma la parola
demone mi spinse a riflettere.
Per demone si intende l’essere alato che sta dalla
parte del male, che si contrappone agli angeli, ma si
parla spesso di demoni quando si vogliono indicare le
paure più profonde che ognuno di noi ha.
Qual era il mio demone? Di cosa avevo veramente
paura?
Cosa mi faceva stare male? Perché soffrivo?
“Demone Bianco.
Bianco come le ultime facciate del compito in classe
che non riuscivo a completare.
Un compito in classe che mi veniva strappato dalle
mani senza che la verità potesse entrare in esso.
La verità era che io sapevo e non potevo dimostrarlo.
Io studiavo e venivo chiamato lazzarone.
Io riflettevo e capivo, ma venivo trattato come uno
stupido.
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Questo era il mio demone, ma non era dentro di me,
era attorno a me; in tutti coloro che non si curavano di
ciò che continuavo ad urlare loro”.
Non mi aspetto che apprezziate una così grezza
metafora, ma è l’unica immagine in grado di
rappresentare in modo stilizzato quella angoscia, quel
profondo timore che avevo nell’affacciarmi alla realtà
nella quale ero chiamato ad essere.
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IL TRUCCO
Trascorsi gli ultimi mesi di scuola sul filo del rasoio,
sospeso tra la sufficienza e il baratro.
Le lingue straniere erano la mia croce e le
insufficienze, se scritte in lingua tedesca, sembrano
ancora più minacciose.
Mancava poco alla fine e questo mi dava la forza di
subire le ingerenze sempre più ricorrenti, poiché
ormai proiettate in un'ottica positiva, data dalla
convinzione che il rimprovero fosse un favore, uno
stimolo a fare di più.
Ero apatico, senza sentimenti e senz’anima,
invulnerabile di fronte a quel modo di fare.
Avevo fatto degli studi approfonditi su me stesso,
valutando tutte le possibilità e la soluzione che avevo
trovato, già da un anno, era chiara e palese: facevo
fatica a leggere.
Non era possibile per me comprendere il motivo di
questa difficoltà, ma se qualcuno mi avesse dato
ascolto forse …
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No, nessuno mi dava ascolto, perché avevo stampato
in fronte il marchio del lazzarone e dello stupido e, i
docenti, non possono certo mettere in dubbio la loro
capacità di valutazione: io ero un lazzarone, punto e
basta.
Come già detto mancavano pochi mesi e io sapevo
benissimo ciò che dovevo fare.
Avevo fatto degli esperimenti molto particolari nelle
ultime verifiche e questi mi avevano dato la chiara
consapevolezza della mia velocità di esecuzione e la
conoscenza dei miei limiti.
Prima sperimentai “l’estraneamento” da ogni
percezione esterna, spensi i quattro sensi che non mi
servivano e concentrai tutto sulla lettura del compito,
solo così mi era possibile non commettere errori e
comprendere la consegna.
Poi, eliminai la frenesia imponendomi di completare il
compito fin dove il tempo mi consentiva di arrivare.
Infine analizzai la struttura standard del compito e
trovai il modo di aggirarlo.
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Dal secondo esperimento, (quello in cui avevo
eliminato la frenesia) era derivato un compito
completo e perfetto per l’integrità di due facciate su
quattro, le altre due erano in bianco poiché non ero
riuscito a completarle nel tempo stabilito.
Ciò significava che ero in grado di ultimare metà del
compito e raggiungere la sufficienza, ma cosa dovevo
fare per arrivare al “buono”?
Analizzai la verifica e notai che la prima pagina era
sempre una “comprensione”, un testo da leggere o
ascoltare, seguito da domande a risposta multipla che
richiedono di essere lette nella loro integrità prima di
rispondere.
Da qui attuai il mio semplice piano: completai la
seconda e la terza facciata in modo perfetto e, mentre
la campanella suonava, posi delle croci a casaccio
nella prima facciata.
Il risultato fu quello sperato: ottenni il tanto sospirato
“Buono”( 65% di compito eseguito correttamente).
Soddisfatto torno a casa: “Madre, stendi il tappeto
rosso e ammazza il vitello grasso!”.
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JACK
La consapevolezza fece migliorare i miei voti, ma i
professori interpretarono quel mio miglioramento nel
peggiore dei modi.
“È riuscito a prendere Buono, ciò significa che se
studia ci riesce”.
Quello sforzo per migliorare la mia esistenza si rivelò,
paradossalmente, come specchio crudele sulla realtà.
Compresi che i miei professori non erano
assolutamente in grado di valutare ciò che realmente
sapevo.
Erano esaminatori ciechi ed erano sordi quando mia
madre diceva loro quanto studiavo.
Lo sconforto riprese rapidamente il sopravvento e,
con esso, la stanchezza di chi ha dato tutto per tre
anni, senza ricevere nulla.
Mia madre premeva particolarmente su questi ultimi
voti, perché non voleva che venissi presentato alle
superiori con la valutazione Sufficiente, e il Buono
appariva una meta raggiungibile.
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Io ero stanco, ma fortemente motivato e non avrei
ceduto di fronte a niente e a nessuno.
Sapevo che non potevo contare sui professori e non
potevo fare affidamento sulla famiglia, ma credevo di
potercela fare, o meglio, speravo di farcela.
Le mie speranze vennero infrante ai piedi del solito
patibolo, durante la consegna di una verifica che
credevo di aver completato correttamente.
Insufficiente, una parola che in italiano significa “non
abbastanza”, seguita dal solito commento che nel mio
cuore si tramutava in “ne ho abbastanza”.
Ne avevo abbastanza di quell’ingiusto accanirsi, di
quel pretendere da me solo ed esclusivamente ciò
che non potevo fare, di quell’insufficiente posto come
una colpa.
“Ne ho abbastanza” pensai stringendo i pugni con
tanta forza da far tremare i miei gomiti.
Un urlo esplose dentro di me e quella forza risuonò
nella mia gola come un respiro strozzato.
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La professoressa passava tra i banchi, mi guardò e
richiamò: - È inutile fare quei versi Cutrera - mi disse
- cosa vuoi dire? -
“Ne ho abbastanza” pensai.
- Sono scocciato - dissi - …non ce la faccio più -
La professoressa non capì:- Sei scocciato… e questo
cosa c’entra? -
Ormai ero come un nuotatore che si getta dal
trampolino e non potevo più tornare indietro, quindi
proseguii: - Ho preso un’ insufficienza… mi pare di
avere tutti i motivi di questo mondo per essere
scocciato - risposi mantenendo basso il capo, come
mio solito.
La professoressa raggiunse la cattedra come se non
avessi parlato e mi rispose nel consueto modo: - Se tu
avessi studiato di più…-
“Ora basta” furono le due parole che martellarono il
mio cuore in quel decimo di secondo e, la loro forza fu
tale da scollegare quel freno che mi ero imposto per
tre lunghissimi anni.
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Di scatto mi alzai, facendo leva sulle mani, tese dagli
stessi nervi che nuovamente raddrizzarono la schiena
e fecero sollevare il mio capo.
- Io ho studiato!- urlai - …ho studiato per più di sei
ore, ho perso la serata e la nottata a studiare e questa
stramaledetta verifica l'avrei saputa fare ad occhi
chiusi, se solo ne avessi avuto il tempo, ma ogni volta
lei me la strappa via prima che io riesca a finirla! -
Questo era solo un millesimo di tutto ciò che avrei
voluto gridare in quel momento, erano le parole più
confuse e sconclusionate che io potessi dire, ma non
erano le parole a contare, ma il modo in cui le avevo
proferite.
Con la schiena ritta, gli occhi rossi dal rancore, la
voce chiara e vigorosa mi ero alzato.
Cercavo un urlare che esprimesse tutto ciò che avevo
da dire, un urlo per convincere tutti che i torti che
avevo subito non intendevo subirli mai più.
La professoressa mi rispose mantenendo il suo
distacco:- Se hai studiato, allora non so che dirti -
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rispose spacciando quella insignificante frase per una
risposta.
- Non dica nulla allora - conclusi io - … preferisco il
silenzio.-
È assurdo, buffo e triste ripensare a ciò, ma i miei
compagni ricordano tutti questo avvenimento.
Nelle loro menti non c’è il ricordo di un ragazzo che è
rimasto in silenzio per tre anni, ma quello di uno che
per un minuto ha avuto il coraggio di alzarsi in piedi e
parlare.
Ho odiato i miei docenti per il loro menefreghismo e la
superbia che li spingeva a non ascoltarmi, ma oggi so
che non è in loro l’origine del male che ha distrutto la
mia vita. L’ignoranza ha forgiato quegli anni terribili,
dall’ignoranza dei miei professori sono nate quelle
frasi assurde che mi sono state affibbiate e,
purtroppo, quell’ignoranza esiste ancora. Io non urlai
contro la mia professoressa, ma contro l’ingiustizia
che lei non riusciva a vedere e capire.
Per questo motivo non odio i miei professori, perché
non è colpa loro se nessuno gli ha mai detto che
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esiste la dislessia. Tutto ciò che rimprovero loro è di
non avermi ascoltato, di non aver avuto l’umiltà di
ammettere che anche un ragazzino delle scuole
medie può intuire qualcosa che i docenti ignorano. Ciò
che mi renderebbe veramente felice, sarebbe
rincontrare questi miei vecchi professori e poter
spiegare loro ciò che ora vi ho scritto.
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IL TEMA
Ultimi mesi, ultimi passi verso la licenza media.
Avevo poco tempo per dimostrare ciò che sapevo,
poche verifiche e non molte interrogazioni.
Diedi fondo a tutte le mie energie in quei giorni, ma
rimaneva il problema della lingua italiana.
Sebbene io padroneggiassi i verbi e fossi
perfettamente in grado di concatenarli a dovere,
mancava in me la possibilità di rileggere i miei scritti a
causa del tempo.
Potevo scrivere il più bello tra i poemi e sbagliare le
“a” con l’“H”.
Questo era importante, questo era vitale, ma,
nell’animo della mia professoressa, sorse quel dubbio
che tutti dovrebbero accogliere.
Furono tre temi a accendere in lei tale dubbio.
Il primo di questi aveva come consegna:
“Descrivi cosa significa per te la parola VITA e da
cosa deriva la felicità di esistere.”
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In realtà non era un vero e proprio tema, ma solo un
compito dato per casa che richiedeva una risposta
rapida, poetica quanto basta, per essere unita alle
parole degli altri compagni e trasformata in una
gioiosa canzone.
Io scrissi: “Ho 13 anni e mi sembra che ancora non ho
potuto vivere”
e completai affermando che mi era stata promessa la
felicità, ma in un tempo futuro e lontano.
Conclusi dichiarando che la bellezza nella mia vita
sarebbe arrivata quando avrei potuto realizzare
qualcosa di grande per gli altri e per me.
(sto ancora cercando tale bellezza.)
In seguito i miei compagni seppero del libro che stavo
scrivendo e mi proposero come loro rappresentante in
un concorso letterario.
Scrissi una storia, la descrizione della lotta tra bene e
male sotto lo sfondo musicale di “Notte sul monte
calvo”.
70
Scrissi con calma, al computer, ma soprattutto con il
correttore automatico che impedì alle a con l’h di
distruggere il mio racconto.
Tutti ammisero che avevo creatività e, da quel
momento, la professoressa prestò particolare
attenzione ai contenuti che facevo emergere dai miei
temi.
Infine, il tema per eccellenza, una traccia che mi diede
lo spunto per svuotare ciò che sentivo sulla sfera della
mia biro.
Lo riporterò così come lo scrissi allora e vi chiedo
perdono se la forma vi apparirà grezza.
71
LA MIA VITA SCOLASTICA
<< Sette anni e mezzo fa, puntuale come un orologio,
ho fatto la mia entrata alle scuole elementari.
Ho trascorso la bellezza di cinque anni della mia vita
lì, considerato da tutti “il genio della classe”.
Quando, un brutto giorno, mi hanno chiesto se volevo
frequentare una classe di solo inglese o una di inglese
e tedesco, il consiglio che mi diedero fu inglese e
tedesco. L’errore era fatto. Questa scelta mi ha tolto
tutti i miei amici, i bei voti e la voglia di studiare.
La classe “X” è formata dai professori più severi del
pianeta ed è quello che si definisce “un corso duro.”
Nonostante la visibile differenza fra le elementari e
questa sezione, mi sono impegnato e nel primo
quadrimestre sono riuscito a conservare una media
fra il buono e il sufficiente, ma gli altri tre quadrimestri
fino ad ora sono stati un vero inferno di insufficienze.
Sono arrivato fino al terzo anno, e ora ? …
Se riguardo allo specchio non sono affatto contento:
sono diventato uno che disprezza la propria vita e non
sa perché esiste.
72
Il mio punto di forza è la concretezza e so benissimo
che, nel mondo, di concreto c’è poco. Il mio punto
debole, per ora, è lo studio delle lingue straniere e di
tutto ciò che le riguarda. Sin dal giorno della mia
nascita mi hanno spiegato che la vita è studio, lavoro
e morte e i miei occhi me ne hanno dato la conferma.
Io non voglio vivere per aspettare la morte; voglio fare
qualcosa di utile. Cosa è cambiato in questi anni?
Semplice, ora “penso” e non è affatto una bella cosa.
Mia madre, un giorno, mi ha detto che il sogno di ogni
uomo è la felicità e mi chiese cosa mi avrebbe reso
felice. Gli risposi che volevo fare qualcosa di
importante e le chiesi cosa avesse fatto lei di tanto
importante nella sua vita. Rispose che aveva fatto me.
Anche se dovrei, preferisco non commentare.
In conclusione ho scoperto di essere uno dei tanti
esseri umani che vivono passivamente, in modo
monotono, sperando che tutto questo non sia vero.
È meglio essere “ciechi” e non vedere i problemi che
essere geni e non poter far nulla. Non mi spaventa la
morte, mi spaventa la vita. >>
73
“Meglio essere ciechi e non vedere” questo è il motivo
per cui i miei professori non mi avevano ascoltato, era
troppo difficile osservare qualcosa che non si capisce.
Un lazzarone sapevano cosa era, uno stupido era
qualcosa di accettabile, ma io non avevo un nome,
non avevo etichetta che potessero leggere.
Scrissi che il mondo, ogni uomo in generale,
preferisce non vedere.
Scrissi che anche io mi arrendevo a ciò, a fingere che
tutto fosse giusto e che il loro metro di giudizio fosse il
migliore, ma, dentro di me, continuavo a sperare che
capissero e smettessero di dirmi “Non sei stupido,
quindi sei lazzarone”.
La lettera che vi ho riportato è stata portata dalla mia
professoressa di lettere all’attenzione di tutti gli altri
professori e io spero che, in quei brevi minuti, loro
abbiano provato quel brivido, quel risalire di un dubbio
che professionalmente non dovrebbero provare, ma
che umanamente non potevano snobbare.
“Se avesse ragione lui? Se ciò che dice fosse vero?
Se davvero studia e davvero sa, perché non prende
74
Ottimo nelle verifiche? ”.
Da questa domanda sarebbero potute sorgere le basi
per scoprire la verità, i fondamenti per giungere alla
diagnosi di dislessia, ma molti dei miei professori non
si lasciarono nemmeno sfiorare da quel fastidioso
dubbio e, anche chi si lasciava toccare da ciò, non
poteva far altro che riempire la propria mente di
ulteriori dubbi.
Questo dubitare della propria infallibilità spinse la mia
professoressa di italiano a riprendere in mano le mie
frasi, i miei temi e, da tale dubbio, nacque quella
domanda posta alla fine di quei tre anni.
- Hai scritto : “Ho 13 anni e mi sembra che ancora
non ho potuto vivere” la pensi ancora così, o è
cambiato qualcosa? -
Quella fu l’unica volta in cui mi venne posta una
domanda su di me che non pretendesse una risposta
unica e preconfezionata.
Non era una domanda retorica, non era il classico:
“Perché non studi?”
75
Non conteneva in sé un giudizio, né un rimprovero
senza possibilità di obbiezione.
Era una semplice domanda.
Fu un segno, uno spiraglio e, ripensare a questa lieve
scintilla di luce, mi fa capire che il mondo può
veramente essere salvato, le persone possono
veramente cambiare e il futuro può veramente essere
migliore.
Così me ne andai da quella scuola varcando quel
cancello verde con la speranza in cuore, una
speranza che è stata la mia forza e il mio scudo fino
ad oggi.
Non avevo più apparecchio ai denti né schiena curva
né occhiali.
Varcavo quella soglia a testa alta.
76
OSSERVARE L’IGNOTO
“La vita è come una retta orizzontale, che parte da
meno infinito e si conclude a più infinito” Così scrivevo
nelle vacanze di quell’anno.
“L’infinito sta al principio e alla fine, ma è presente
anche tra due punti qualsiasi di questa retta.
Prova a contare i numeri che stanno tra 1 e 2,
considerando un’infinità di cifre dopo la virgola, e
capirai”
L’infinito sta all’inizio, alla fine e tra i punti, quindi
sapresti dirmi dove non è presente?
“I punti che noi definiamo, i punti a cui diamo un
nome, quelli non rientrano più nell’infinito, quei punti
non fanno più parte dell’ignoto”
Così scrivevo in una serata d’estate, riflettendo
sull’assurdità della mia situazione.
Mi sentivo come uno di quegli infiniti numeri che
vengono approssimati con un etichetta: 2, 1, 4 ma
anche lazzarone, scansafatiche, stupido.
77
Sapevo che il mondo non sapeva cos’ero veramente
e sapevo che non potevo cambiare il mondo da solo,
ma se dovevo subire l’attacco del mondo avrei
comunque venduto cara la pelle.
Io riposavo nell’estate che conduce alle superiori
mentre mia madre meditava su quanto le avevo
raccontato:
L’avevo avvicinata più volte in quell’anno scolastico e
le avevo chiesto con cruda semplicità: “Perché non mi
vuoi bene, perché non mi aiuti a capire cosa ho?”
Mia madre si era interrogata su questo e mi portò in
uno studio psicologico per farmi fare alcuni test.
Io li avevo svolti prima degli esami e non avevo
ancora avuto notizia di come fossero andati, ma ero,
comunque, sicuro di una cosa:
alcuni test erano per il calcolo del Quoziente
Intellettivo e ciò avrebbe sicuramente significato
qualcosa.
Se i test avessero detto che ero stupido nessuno
avrebbe più infierito chiamandomi lazzarone.
78
Mentre, se avessero detto che ero un genio, nessuno
mi avrebbe potuto chiamare stupido.
In conclusione uno dei due insulti sarebbe
sicuramente sparito e questa era, a mio parere, una
conquista.
Non posso dire di aver atteso quel verdetto con
trepidazione.
Non mi importava più del giudizio degli altri e questo è
probabilmente l’unico, vero insegnamento che ho
potuto ottenere in quei tre anni di medie.
Non mi importava di fare brutte figure, ne di essere
allontanato, perché non avevo più nulla da perdere e,
questo mi consentiva di essere molto meno inibito
rispetto ai miei coetanei.
Non avevo paura a scendere in pista quando
facevano la discoteca all’aperto, ne problemi ad
essere me stesso fino in fondo, perché nessun
giudizio poteva incidere più in profondità delle piaghe
del passato.
79
Scrissi la bozza di uno testo teatrale e, con alcuni
amici del campo estivo, lo trasformai in uno spettacolo
comico.
Tramutai le mie riflessioni in una rappresentazione
che mostrava la cinicità delle persone,
estremizzandola per far risaltare la follia del mondo
che vuole etichettare tutto e inventare il senso della
vita.
In fine ci misi la faccia interpretando il personaggio
principale e il risultato fu degno degli applausi che
ricevette.
Fu un’estate memorabile, vissuta molto più
intensamente di quanto avrei sperato, ma per quanto
intensa era comunque destinata a finire.
Passai le ultime ore di quella vacanza a riflettere sulla
felicità e mi imposi di raggiungerla con la fretta di chi
non avrà più tempo per nulla.
Tutti mi avevano detto che le superiori erano molto più
impegnative delle scuole medie e che lo studio
doveva aumentare esponenzialmente se volevo
farcela, quindi potete intendere la forma della mia
80
preoccupazione. “Studiare più di quanto già non
facessi” e quando lo trovavo il tempo?
Se mi fossi dato al digiuno e avessi smesso di
dormire, forse avrei rimediato qualche ora, ma credo
che biologicamente sarei morto, anzi, o le basi
scientifiche per dimostrare che sarei morto.
Ritornai a casa con queste domande esistenziali, ma
fortunatamente il caldo della pianura incenerì i miei
pensieri lasciandomi l'unica volontà di riposare, fin
che potevo, per poi passare con gli amici quelle
serate rinfrescate dal buio.
In quelle giornate non ero pienamente felice, ma
neanche triste, viaggiavo semplicemente in quello
stadio intermedio che sta a metà tra la soddisfazione
e il sentire che qualcosa manca, sentire che non sei
ancora pienamente felice. Credevo che avrei ottenuto
la felicità insieme alla licenza media, ma in quelle sere
mi resi conto che ero solo uno studente in attesa
dell'anno successivo.
81
Dovevo ancora dimostrare al mondo quello che
valevo realmente, perché non mi capacitavo di aver
speso tutte quelle ore sui libri in vano.
Sapevo di sapere e non avrei più permesso che una
menzogna mi fosse posta come verità assoluta.
Con questo spirito sarei entrato alle superiori: con
forza, sicurezza e una motivazione che, da sola,
avrebbe potuto spostare le montagne.
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NOME E PROMESSA
Quando nessuno sa chi sei realmente puoi anche
urlare a squarciagola, ma nessuno vorrà mai
ascoltarti.
Alla gente serve un nome per capire: vogliono un
termine conosciuto che combaci con la tua situazione,
poi pretendono anche che questo nome sia collegato
a un’etichetta che ne indichi la terapia medica o
educativa per risolvere le imperfezioni e le anomalie.
Molto spesso mia madre racconta di come io abbia
vissuto con serenità la scoperta di essere dislessico,
ma riflettendo, non avrei potuto vivere questa
scoperta in modo negativo.
Il nome Dislessico era solo un altro nome, un'altra
parola che aveva la pretesa di definire quello che
sono, ma a me non servivano né parole né definizioni
per sapere chi ero.
Ricordo bene lo sguardo basso di mia madre, quando
mi parlò dell'incontro che aveva avuto con la
psicologa.
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Ricordo che stavo per andare a dormire quella sera e
mi venne spontaneo chiedergli se avesse ricevuto
notizie. Lei mi rispose che ne aveva avute e che la
psicologa aveva scoperto qualcosa di cui mi avrebbe
parlato il giorno successivo.
Cosciente della situazione, bloccai mia madre:- Non
ho sonno.- le dissi -…parliamone ora. -
Mia madre si sedete e mi disse che avevano trovato
una “roba” che non era una malattia e che si
chiamava dislessia.
Poi mi disse che non era una cosa poco diffusa,
poiché circa una persona su venti è dislessica.
Mi ribadì che era complicato dire chiaramente in cosa
consistesse e che avrebbe voluto spiegarmelo il
giorno successivo, ma vedendo la mia insistenza si
decise a tentare questa difficile impresa.
- La Dislessia è ... - esordì senza trovare le parole
successive.
Arrancò per qualche secondo, poi mi disse:- Hai
presente quando dicevi di far fatica a leggere e di non
riuscire a completare le verifiche per questo? -
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Io annuii e lei concluse:- Bene, questo è provocato dal
fatto che sei dislessico. -
Io non dissi nulla e mia madre capì:- So che, per te,
questa notizia non dice nulla di nuovo... - commentò -
...sapevi già quello che avevi, ma la novità è che ora
lo sappiamo anche noi.-
Emisi un breve suono, poi abbracciai mia madre e
andai a dormire, cercando di pensare solo al positivo
di tutta quella vicenda che si concludeva quel giorno.
La speranza che da quel giorno in poi le ingiustizie
sarebbero finite apriva il mio sorriso, ma la conferma
che mia madre mi aveva dato riapriva ferite e dolore.
Avevo sempre avuto ragione e tutti mi avevano
sempre dato torto.
Questo mi faceva stare male anche nel momento in
cui avrei dovuto gioire.
È questo che faccio ancora fatica a perdonare.
Mia madre andò a dormire probabilmente sorpresa
dal fatto che non avessi urlato, ne puntato il dito
contro di lei, accusandola di tutti i mali che mi
avevano rovinato la vita.
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Il mio parve un perdono e le mie intenzioni erano
esattamente quelle, ma, è altrettanto vero, che un'
ipotetica sfuriata non avrebbe cambiato nulla: non
avrebbe cancellato tutti quegli anni di ingiustizia e non
avrebbe dato ai miei genitori altro segnale che la mia
sopraffazione di fronte al dolore.
Non era questo il concetto che volevo lasciare in quel
momento, poiché il dolore che provavo non era come
una lancia che trafigge dando una morte rapida, ma
assomigliava ad una lunga agonia che si era
prolungata per tre anni.
Ora tutto era finito, tutto poteva essere dimenticato.
Ebbi la tentazione di cancellare tutta la mia vita per
ricominciare da capo, mi procurai una cartelletta rossa
e raccolsi tutti i residui di quegli anni.
Pagine colme di frasi che dovevo riscrivere 100 volte
per punizione, esercizi ricopiati decine di volte perché
non eseguiti in bella copia.
Brutte copie di italiano con l' “A” con l' “H” sbagliata.
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Pagine con schemi copiati e ricopiati all'infinito, nel
tentativo di farmi assimilare a forza ciò che era, però,
già stato assimilato alla perfezione.
Scrissi con un pennarello rosso la parola “ODIO” su
ogni pagina e scagliai contro il muro ogni cosa che mi
ricordasse quegli anni appena trascorsi.
Urlai, tirai pugni al pavimento, facendo esplodere la
mia furia che pareva inesauribile.
Avrei voluto che tutto quel rancore si riversasse sul
passato che stavo distruggendo e che sparisse
insieme ad esso.
Avrei voluto urlare con tutta la mia forza dalla cima del
colle più alto.
Avrei voluto dimenticare, ma non l'ho fatto.
A cosa serve un ricordo dimenticato o una vita
cancellata? Serve solo a giustificare il male, la
sofferenza e l'ignoranza.
Io avrei potuto dimenticare, ma così facendo avrei
dato il mio consenso a chiunque, oggi, ripete gli errori
e provoca le ingiustizie di cui sono stato vittima.
87
Pensai a mio fratello e al dubbio che potesse essere
dislessico anche lui.
Pensai ai miei futuri figli e compresi che anche loro
avrebbero potuto, con buona probabilità, trovarsi nella
stessa situazione.
Avrei potuto permettere che anche loro subissero
quanto avevo subito io?
No, non potevo permetterlo, non potevo dimenticare.
Alzai lo sguardo e trovai lo specchio che riportava la
mia immagine distrutta e furente.
Quello sguardo scuro non era solo furia.
In quello sguardo nacque la mia promessa.
88
DUE SETTIMANE
“ISTITUTO TECNICO INDUSTRIALE STATALE
BENEDETTO CASTELLI”,
un nome ingombrante ed imponente, sinonimo di
studio e selettività.
Una scuola grande, un'altissima percentuale di
bocciature e una particolare antipatia per coloro che,
come me, erano usciti con una valutazione appena
sufficiente.
Io volevo frequentare quella scuola ad ogni costo per
dimostrare che la mia preparazione era ben più che
sufficiente e ridare dignità a ciò che sapevo.
Io volevo fare l'elettronico, comprendere il
funzionamento dei computer, assemblarli, progettarli e
programmarli; mi interessava questo e non sarebbe
stato uno stupido voto a placare la forza della mia
motivazione.
Non avrei permesso che altri decidessero cosa potevo
o non potevo diventare e, quindi, puntai i piedi con la
89
forza di un mulo testardo e non indietreggiai di un
millimetro.
Una mia professoressa delle medie, ancor prima degli
esami, disse scuotendo il capo:
- Tempo due settimane e lo sbatteranno fuori con due
calci nel sedere. -
Quelle parole costituivano una sfida potente e io non
mi ero mai arreso senza lottare.
Mi iscrissi a quella scuola nella consapevolezza
dell'impegno che mi veniva richiesto, ma rincuorato
dal pensiero che non sarei rimasto solo come alle
medie.
Mi giunse, infatti, notizia che il mio migliore amico e
mio cugino si sarebbero trovati in classe con me.
Questo punto fu un buon inizio, ma non era
sufficiente.
Io avevo una grossissima palla al piede che intendevo
affrontare subito.
I miei professori dovevano sapere della mia dislessia
e dovevano saperlo subito.
90
La psicologa, che mi aveva diagnosticato, mi aveva
raccomandato di aspettare a parlarne perché sarebbe
venuta lei personalmente per riferire il tutto.
Ovviamente, lei poteva indicare quali erano le mie
difficoltà, i dati rilevati nei test e l'elevato punteggio
ottenuto nel calcolo del QI, ma per poter parlare, le
psicologhe, hanno bisogno di una riunione con la
presenza di tutti i docenti, riunione che deve essere
autorizzata dal preside, dal vicepreside, dal tutor e dal
bidello che alla fine è quello che detiene il vero potere
ovvero le chiavi dell'aula.
La psicologa si sarebbe impantanata nella burocrazia
e, qualora fosse riuscita a parlare ai miei docenti,
l'avrebbe sicuramente fatto utilizzando un linguaggio
complesso e forbito, che la sua professione impone.
Quanto esprimo non vuole introdurre al disprezzo
verso il linguaggio ricercato, ma io amo la
pragmaticità e la palese esplicitazione del concetto
preso in questione per consentire all'interlocutore di
immortalarne il contenuto su supporti cartacei.
(se avete capito quello che ho scritto sopra allora vi
91
prego di non offendervi, in caso contrario traduco:
“Non ho niente contro chi parla ricercato, ma penso
che, chi parla come mangia, aiuta i docenti che
devono prendere appunti su fogli di carta.”)
Non fu per sfiducia, ne per altro, semplicemente non
potevo permettere che i miei professori
fraintendessero la mia situazione.
Decisi che il pantano della burocrazia è un male dei
maggiorenni e, poiché io non rientravo ancora in
quella categoria, ero perfettamente libero di parlare
con chiunque. La mia natura era ed è quella del
ragazzo timido, riservato e taciturno, ma la situazione
mi imponeva di cambiare e sfoderare una forza che
non credevo di avere.
Senza attendere oltre, mi informai sulle teorie inerenti
la dislessia e feci un rapido riassunto dei termini
utilizzati per descriverla.
Attesi la fine di ogni ora e bloccai uno ad uno tutti i
miei professori, parlando loro in termini chiari e
inequivocabili. La prima fu la mia professoressa di
italiano che, al termine “dislessia”, non sobbalzò ne si
92
dimostrò perplessa.
Lei aveva già avuto un alunno dislessico: un ragazzo
di due anni più grande di me che, successivamente,
mi presentò. Di fronte a quel primo approccio, tirai un
sospiro di sollievo, ma contemporaneamente notai,
una possibilità di fraintendimento.
Studiando la dislessia avevo scoperto che essa viene
catalogata come D.S.A., ovvero disturbo specifico
dell'apprendimento e, una particolarità che mi aveva
colpito da subito, era data dal fatto che, nel linguaggio
dei professori e degli esperti, spesso si dice dislessia
non solo per indicare la difficoltà nella lettura, ma in
generale per indicare l'insieme dei D.S.A., che
comprende anche “disgrafia”, “dislalia”, “discalculia” e
“disortografia”. Pertanto mi sorse il dubbio fondato che
le mia professoressa si stesse confondendo.
Parlando con quel ragazzo i miei dubbi ebbero
conferma: la sua era una dislessia/discalculia.
Le sue difficoltà derivavano da un'origine comune alla
mia, ma erano differenti:
io avevo difficoltà a riportare i passaggi delle
93
disequazioni, lui aveva problemi nel calcolo, io facevo
fatica a leggere i paradigmi d'inglese e li confondevo,
lui aveva problemi nel dettato di inglese e così via.
Ciò nonostante l'incontro con un altro ragazzo, che
viveva problemi simili ai miei, mi giovò e mi diede
ottime speranze.
Proseguii la mia opera di informazione/insegnanti
bloccando uno ad uno tutti gli altri professori.
Ottenni il sobbalzo che la professoressa di italiano
non aveva fatto e spiegai loro cosa fosse la dislessia,
nella rapidità che il cambio d'ora impone. I professori
si dimostrarono disponibili ad ascoltarmi, ma vollero
verificare l'effettiva corrispondenza delle mie parole
con i fatti, perché fidarsi è bene ma non fidarsi è
ovvio.
Mi rimboccai le maniche e mi preparai ad affrontare
questo tacito esame, consapevole che sarebbe stato
solo il primo dei mille esami della vita.
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LE DUE VERIFICHE
Uno tra i dubbi che assaliva i miei professori era
quello che io volessi semplicemente fare il furbo,
ottenere agevolazioni che mi consentissero di
raggiungere il massimo risultato al minimo dello
sforzo, o cose simili.
Il dubbio era legittimo e io ero consapevole di questo
giustificato scetticismo.
In effetti io avrei potuto fare il furbo e chiedere
agevolazioni enormi in virtù della mia dislessia, ma ho
preferito non farlo.
Si, è vero, la possibilità fa l'uomo ladro, ma il crimine
non paga e io preferivo essere bocciato mantenendo
quell'integrità che mi ero costruito negli anni delle
medie.
Nella mia scheda che venne presentata al consiglio di
classe vennero chiaramente esplicitati gli strumenti
compensativi di cui avevo bisogno.
In primis, il tempo per finire le verifiche e, poi, vi era
l'elenco di tutti gli altri strumenti di cui in generale un
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dislessico può disporre.
Io ero consapevole delle mie difficoltà e sapevo che,
la semplice concessione del tempo in più, mi avrebbe
consentito di risolvere gran parte dei miei problemi e
di superare l'anno. Puntai tutta la mia insistenza su
quel punto, che ritenevo di vitale importanza e
tralasciai gli altri strumenti compensativi che
cadevano in secondo piano.
In una verifica la professoressa di matematica
(probabilmente sotto consiglio di quella di italiano) mi
chiese se volevo utilizzare la calcolatrice e io rifiutai
quello strumento dicendole che non era quella la mia
difficoltà. Io non avevo problemi di discalculia, ma di
lettura. Notai lo stesso fraintendimento anche con la
professoressa di inglese che, probabilmente memore
dell'esperienza con l'altro ragazzo dislessico,
intendeva esonerarmi dal dettato (L'unica parte
dell'inglese che, per assurdo, mi riesce bene).
Non ho voluto avvalermi di questi strumenti, ne ho mai
considerato l'idea di approfittarmene, ma ,per quanto
riguardava il tempo, non potevo dire di non averne
96
effettivo bisogno. La professoressa di matematica,
dopo aver letto la mia scheda, valutò il punto che
riguardava la velocità di lettura.
Probabilmente l'ho già ripetuto mille volte, ma è bene
ricordarlo: la mia velocità di lettura è pari alla metà di
quella di un ragazzo non dislessico e, di
conseguenza, la mia scheda richiedeva che mi fosse
concesso il doppio del tempo per completare la
verifica o che mi venissero date verifiche con la metà
degli esercizi, per far si che potessi completarle e non
fossi costretto a vedermi strappar via la verifica per
metà incompleta.
La mia professoressa probabilmente rimase
incuriosita da tutto ciò e, sicuramente, osservando la
mia verifica completa per metà si domandò se
realmente era solo il tempo a impedirmi di prendere la
sufficienza.
Un giorno, senza preavviso la professoressa mi
consegnò il compito dove spiccava in rosso il voto 5,
che corrisponde all'insufficienza e poi, senza dare
troppe spiegazioni, mi disse di mettermi con il banco
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nell'angolo e mi diede un'altra verifica sullo stesso
argomento. Se, per la prima verifica, il tempo stabilito
erano 50 minuti, per la seconda me ne diede 100 e il
risultato fu direttamente proporzionale.
Avevo studiato alla perfezione quell'argomento, ma,
nonostante tutto, avrei preso l'insufficienza, se nella
mente della mia professoressa non fosse sorto quel
dubbio e non avesse voluto verificarlo.
Mi hanno messo alla prova, ma non ero io il
protagonista di questa impresa.
I protagonisti sono stati i miei docenti, sono le loro
certezze e le loro ferme opinioni, quelle che, di fronte
a questa esperienza, hanno subito il cambiamento più
radicale. Io vorrei dirvi che questa dimostrazione
matematica mi ha spianato la strada e che il doppio
del tempo, da li in poi, mi è sempre stato concesso in
tutte le materie, ma non è andata così.
Molti miei docenti, per impossibilità a livello di ore o
problemi affini, non mi diedero più tempo o si
limitarono a farlo solo in alcuni casi; ma ciò
nonostante, l'aver dimostrato ai miei professori di aver
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effettivamente studiato e di conoscere le cose, mi
donò qualcosa di superiore rispetto a qualsiasi altro
trofeo. Ottenni il loro rispetto e, in loro, leggevo la
consapevolezza di quello che era il mio impegno.
Loro sapevano che, chiunque, con il doppio del tempo
può fare meglio, ma erano consapevoli che non si può
dare 5 ad una persona che con il tempo appropriato
prenderebbe 10. Io credo che l'obiettivo di un buon
esaminatore sia quello di valutare ciò che l'alunno
effettivamente conosce, non il limitarsi a correggere
un test basato sulla velocità. Questo può apparire
come un sentimentalismo, la volontà di valorizzare
l'impegno di chi non ce la fa, ma, al contrario, si tratta
di un concetto strettamente pratico.
Un chirurgo dislessico che per tutta la sua vita
scolastica ha sempre preso voti mediocri, in virtù di
questa problematica, ha una conoscenza molto
accurata degli argomenti e, per assurdo, li conosce
meglio di uno che ha avuto voti migliori dei suoi.
È per questo che si dice: “Se devi farti operare spera
che il chirurgo sia dislessico”.
99
IL MOTORE
La mia sfida con la scuola superiore era appena
iniziata, ma già avevo conseguito una grande vittoria
che avrei voluto conseguire parecchi anni prima.
Avevo dimostrato la mia buona volontà, e il mio
impegno era stato riconosciuto, e accolto con rispetto
da quei nuovi professori.
Il tempo del gioco dell'umiliazione era finito, nessuno
mi avrebbe più affibbiato il termine lazzarone e, l'unico
mio rimpianto, era quello di non aver vissuto quel
giorno prima delle superiori.
Pensai che, anche i miei professori delle medie,
avrebbero provato lo stesso rispetto se solo avessero
saputo e, che così, valeva per tutti i professori che
non conoscevano la dislessia. Mi posi un sacco di
domande e feci un sacco di ragionamenti astrusi, ma
alla fine tutto si limitò a poche e definite conclusioni.
Pensai che quel ragazzo dislessico, che la
professoressa mi aveva presentato, aveva
100
frequentato la terza media del mio stesso istituto e,
che io non l'avevo mai incrociato.
Pensai che probabilmente molta gente che conoscevo
era dislessica, e crebbe in me la volontà di incontrare
altri ragazzi con le mie stesse difficoltà.
Con questo spirito mi recai all'A.I.D. (Associazione
Italiana Dislessia), e notai con dispiacere, che si
trattava di un semplice gruppo di genitori ed esperti,
che si riunivano per parlare di problematiche inerenti
la burocrazia scolastica e i metodi per ottenere gli
strumenti compensativi.
Non erano presenti ragazzi dislessici, e non si parlava
direttamente delle situazioni pratiche che la scuola
poneva di fronte a noi ragazzi.
Io mi sentii come un pesce gettato sulla terra ferma e
ascoltai passivamente quanto veniva detto.
Si parlò dell'elezione di una nuova presidentessa e
della volontà di cambiare sede, e io rimasi in un
angolo senza aprir bocca.
La riunione finì e alcune mamme, vedendomi,
sorrisero moderatamente prima di uscire.
101
Io ero deluso, e nella mia mente scorreva una chiara
domanda: “Dove sono gli altri?”
Mi risposero che, solitamente, un dislessico vuole
dimenticare il passato e non spreca una serata a
parlare di avvenimenti che evocano ricordi dolorosi.
Probabilmente era vero, ma io continuavo a credere
che quel dolore avesse un senso.
Continuavo a pensare che, quanto avevo passato,
derivasse da uno sbaglio che non doveva essere
ripetuto. Ora ne avevo la certezza: io dovevo
riprendere in mano quel passato e tramutare quel
dolore in forza di reazione.
Dovevo ricordare, mostrare la crudezza dell'ingiustizia
perché, solo così, avrei potuto costruire un futuro
diverso dal passato.
Un futuro migliore …si, questo era ciò che volevo ed è
per questo che mi sono mosso.
102
MOVIMENTO SPONTANEO
Il mese successivo mi recai alla nuova sede e ascoltai
nuovamente gli avvisi e le comunicazioni.
Sentii parlare di particolari strumenti: sintesi vocale e
libri parlati dell'Unione Italiana Cechi. Mia madre
appuntò ogni cosa, e io continuai a seguire con la
ormai classica domanda che scorreva nel cervello.
Ad un certo punto, il discorso si aprì sull'argomento
dislessia e scuola, e vi fu un rapido botta e risposta
sulla questione “insegnanti e modalità per fare
informazione nelle scuole”.
Io esitai ad immettermi nel discorso, per paura di fare
brutta figura o essere giudicato, ma in breve compresi
che nel peggiore dei casi avrei ricevuto parole di
dissenso che non erano molto differenti da quelle che
avevo udito per tre anni. Alzai la mano, e la tenni
alzata finché non vollero voltarsi verso di me.
Espressi la mia opinione, parlando con i termini chiari
e abbastanza esaurienti, che facevano capo alla mia
diretta esperienza.
103
Il risultato fu un ammirato silenzio, seguito da un
breve applauso.
Non credo che questa ammirazione derivasse dalla
mia dialettica, ne dalla particolare bellezza delle mie
parole, ma semplicemente dalla soddisfazione di chi
si rispecchia in quanto viene detto.
Io parlavo di un'esperienza e, coloro che hanno
applaudito, lo hanno fatto perché in questa esperienza
hanno visto il vissuto scolastico dei propri figli.
A partire da quell'incontro cominciarono a fermarmi,
all'uscita, mamme disperate, che mi scongiuravano di
parlare con i loro figli.
Volevano che trasmettessi loro l'entusiasmo e la
fiducia nel futuro che traspariva dal mio parlare.
Io chiarii subito il probabile errore, spiegando loro che
non ero nato a Betlemme e non potevo imporre le
mani per risolvere i loro problemi.
Ciò nonostante molte mamme mi offrirono un invito a
pranzo, nella speranza che io incontrassi e
conoscessi i loro figli.
Tanta stima era, per me, una grandissima fonte di
104
gratificazione, ma, allo stesso tempo, sentivo
l'impossibilità di rispondere a tutti quegli inviti. Senza
indugiare, proposi a questi genitori di premere per la
realizzazione di un incontro studiato appositamente
per i ragazzi.
La pressione dei genitori sul direttivo e la mia
dichiarata disponibilità a farmi promotore di questa
iniziativa, diedero successivamente vita al Gruppo
Giovani che oggi come allora, si raduna ogni primo
mercoledì del mese presso la sede dell'A.I.D. di
Brescia.
Espresso in due righe sembra facile; forse perché, in
linea di principio, non esiste cosa più semplice.
L'incontro tra persone che vivono un'esperienza
simile, dovrebbe apparire come esigenza naturale e in
questo caso la sua utilità è estrema.
Tuttavia la burocrazia, la sicurezza e le responsabilità,
hanno fatto si che questa volontà di incontrarsi non
potesse prendere vita.
105
Era necessario avere i mezzi, le persone indicate,
l'approvazione di fantomatiche autorità
dell'associazione.
Effettivamente, devo ammettere che tali discorsi sono
legittimi e rispettabili, ma altrettanto rispettabile era il
nostro diritto di avere una possibilità di incontrarci.
Dopo continue pressioni e titubanze, il direttivo
acconsentì ad aprire un incontro alla presenza dei
ragazzi.
Probabilmente, non si aspettavano un'affluenza
massiccia, e credettero che i ragazzini avrebbero
tranquillamente affiancato i genitori ascoltando i
discorsi dei grandi. È inutile dire che, chi pensava ciò,
venne colto da un'imponente sorpresa.
L'affluenza di ragazzi fu superiore ad ogni loro
aspettativa e in contemporanea anche il numero dei
genitori aumentò esponenzialmente.
La palestra utilizzata per l'incontro era sufficiente solo
a contenere il gruppo dei genitori e di conseguenza
dovettero procurarmi un altro spazio per consentirmi
di tenere l'incontro dei ragazzi.
106
Tutto avvenne nella frenesia di chi non è pronto a far
fronte ad una simile richiesta e io, in mezzo a quel
marasma, mantenevo la mia tranquillità.
Mi diedero la palestra adiacente a quella dove si stava
sviluppando l'incontro dei genitori.
Era un ambiente ampio e dispersivo, i ragazzi erano
parecchi e io potevo contare solo sull'appoggio di una
ragazza dislessica delle superiori, che appariva più
agitata dei genitori.
La mia indicazione era stata quella di portare ragazzi
delle medie e, al limite, di quinta elementare; ma si sa
che le mamme sono al di sopra di ogni legge.
Trovai ragazzi di prima/seconda elementare e,
successivamente, me ne portarono anche di più
piccoli. Io raccolsi questo gruppo estremamente
eterogeneo attorno ad un cerchio; mi presentai, e mi
presentai come Dislessico.
Successivamente si parlò della scuola, si discusse del
più e del meno, si giocò, si fece un sacco di rumore.
Quel rumore dava fastidio, e impediva agli adulti di
proseguire in tranquillità la loro riunione, ma quello era
107
il rumore che deriva da qualcosa di nuovo che
prepotentemente emerge.
Ai ragazzini presenti, quel giorno, non è rimasto
impresso il programma di sintesi vocale che gli ho
mostrato, ne la piccola discussione sulla scuola che
riassumeva le motivazioni di quell'incontro.
No, delle mie parole rimase solo il termine Dislessico,
che avevano sempre visto come una sottospecie di
parolaccia e che, ora, gli appariva come nome proprio
del ragazzo che si è fermato tutta sera a giocare e
scherzare con loro.
Questo fu il primo incontro del Gruppo Giovani: una
serata complessa e, apparentemente, priva di ordine,
ma da questa serata si svilupparono risultati
inimmaginabili.
Senza accorgermene, avevo dato a quei ragazzini i
tre punti fondamentali che consentono ad una
persona di vivere con serenità il problema della
dislessia:
-Presentandomi come dislessico li spronai a non
vergognarsi di ciò che sono.
108
-Facendoli incontrare diedi loro la consapevolezza di
non essere soli.
-Giocando mi posi come un amico, disponibile ad
aiutare e, questo, diede loro la sicurezza e la
speranza.
Molti, dopo quell’incontro, si domandarono quale
strana terapia di gruppo avessi adottato, ma, i
genitori, (che a turno entravano nella palestra per
supervisionare il tutto) confermarono quanto vi ho
raccontato.
Non si fa alcun tipo di terapia all'interno del Gruppo
Giovani, questa è la prima regola che imposi; ma gli
effetti dell'incontro tra questi ragazzi si sono sempre
rivelati altrettanto utili e positivi.
L'incontro successivo ci si incontrò con i genitori e,
non era difficile leggere in loro l'entusiasmo riflesso
dai figli. La volontà di un nuovo incontro per i ragazzi
era forte, ma il direttivo puntava a temporeggiare,
poiché intendeva trovare un'adeguata sistemazione e
intendeva costruire un'organizzazione più forte.
109
Chiesero di rinviare il prossimo incontro del Gruppo
Giovani e di limitarsi a semplici incontri per genitori,
almeno per un po'; ma non sapevano che è
impossibile arrestare un fiume in piena.
In risposta alla decisione di rimandare l'incontro dei
giovani, i genitori e i figli risposero facendo orecchio
da mercante e, così per tutti i mesi successivi,
l'associazione dovette prendere atto della presenza di
un movimento spontaneo di ragazzi dislessici, che
intendevano incontrarsi discutere e giocare assieme.
Non si poteva impedire ad un dislessico di partecipare
alle riunioni sulla dislessia e, allo stesso tempo, non si
poteva unire la riunione degli adulti all'incontro dei
giovani. In modo unanime venne avanzata la richiesta
di una stanza stabile, dove il Gruppo Giovani potesse
riunirsi e, per fini di controllo e responsabilità, mi
venne affiancato, a rotazione, un membro
dell'A.I.D.,che aveva il compito di vigilare sulla
sicurezza dei ragazzi e controllare il mio operato (data
la mia giovane età).
I primi incontri in questa nuova sala toccarono, in
110
termini molto leggeri, argomenti di particolare
rilevanza che emersero spontaneamente dalla
semplice domanda: “Come va a scuola? ”.
È strano pensare che tanti ragazzi, di età distante tra
loro, potessero trovare in quelle discussioni tanta
sintonia, ma questo è ciò che avviene quando ad
accomunarli è un’esperienza così forte.
Non saltavano e non correvano avanti e in dietro
come dei pazzi e, l'attenzione che mi riservavano
quando parlavo, era ben diversa dal silenzio che gli
alunni riservano all'insegnate.
Mi ascoltavano… si, ma come si ascolta un amico che
ti sta raccontando la cosa più interessante del mondo.
111
LO SCATTO B/H1
Per i ragazzi di cui mi occupavo io ero un grande, ma,
per il mondo, restavo un piccolo studente che aveva
ancora molto da dimostrare.
Dovevo lottare ogni giorno contro i voti da recuperare
e gli argomenti spinosi, ma lo facevo con una nuova
forza, perché la mia motivazione non era più ristretta
ad una soddisfazione personale, ma derivava dalla
consapevolezza che i miei successi avrebbero donato
speranza ai miei ragazzi.
Le mie mattinate iniziavano con una sveglia
strategica, impostata ai limiti delle possibilità umane,
per consentirmi di dormire più a lungo possibile.
Avevo esattamente 5 minuti per: scendere le scale,
percorrere la via traversa e prendere il pulmino che si
fermava all'incrocio con la via principale.
Ho detto prendere? Scusatemi, intendevo perdere,
perché, come avrete capito, non riuscivo mai ad
essere alla fermata in tempo. Scendevo dalle scale
sparato come un proiettile, mi aggrappavo al
112
corrimano per effettuare la curva a U in velocità e, una
volta uscito dalla porta, cominciava la corsa. Tre
erano le cautele da tenere in conto:
1- Ogni rettilineo è un'occasione per controllare se hai
dimenticato l'abbonamento del pulmino.
2- è sconsigliabile allacciare le scarpe in corsa.
3- se credi che dietro all'angolo che stai per superare
non ci sia una simpatica vecchina... beh ti sbagli di
grosso, ogni angolo ha la sua vecchietta.
Una volta raggiunto la stradina che conduce alla
fermata, l'autobus arancione sfilava davanti ai miei
occhi. In quel secondo, la crudeltà delle cose, vuole
che siano due le linee che attraversano quella via e
che, il tuo spirito positivo ti inviti a pensare che
l'autobus sia l'altro, quello che porta dall'altra parte
della città; ma trenta secondi dopo raggiungi la
fermata e hai giusto il tempo di chiedere: “era l'H1?” e
ricevere la sconfortante risposta positiva.
Ricordo che, la prima volta che persi il pulmino, mi
venne naturale prendere l'altra linea che percorreva
tutta la via principale prima di svoltare dalla parte
113
opposta. La linea “B” passava 40 secondi dopo e
l'autista aveva il pedale facile, e riusciva sempre a
raggiungere l'H1 prima del bivio.
Il mio autobus stava li davanti a meno di un metro di
distanza. Io scendevo dalla B per prendere l'H1, ma
quel lasso di tempo era troppo breve per raggiungere
la parte anteriore e, di conseguenza, mi trovavo con le
porte chiuse in faccia. Senza perdermi d'animo,
partivo in scatto schivando passanti e lampioni e
superando in salto gli scatoloni dell'edicola, infine
raggiungevo la fermata successiva, tagliando la curva
del semaforo che mi consentiva di arrivare prima del
pulmino. In conclusione “Jack 1, pulmino 0”
E, per quanto riguarda il riscaldamento di educazione
fisica, ho già dato. Ora, la domanda che ogni soggetto
dotato di senno porrebbe è:
“Che stradiavolo centrano le gare con l'autobus con la
dislessia?” la risposta è ovvia: “Niente, cosa volete
che c'entri”,
114
ma sono sicuro che non vi accontentereste di una
conclusione simile, quindi sarò costretto a svelarvi il
motivo che mi ha spinto ad imprimere questo ricordo
nella mia mente.
L'autobus è come la scuola: corre veloce, più veloce
di te e, da piccolo, questa velocità ti coglie di sorpresa
e l'autobus ti passa davanti, ti sfugge di mano.
In quel caso puoi arrenderti e aspettare quello
successivo o continuare a correre.
La B, l'autobus dietro, è la strada alternativa che noi
dislessici troviamo per raggiungere la velocità degli
altri e, lo scatto B/H1, è la nostra più grande vittoria.
In quel tratto, gli altri, fanno i conti con il semaforo e
con l'impossibilità di tagliare la curva, fanno i conti con
i propri limiti. In quel momento la tua vera forza si
manifesta e avviene il sorpasso.
Si parla spesso di grandi inventori dislessici e di
scienziati che hanno visto dove altri non potevano;
beh, queste sono persone che hanno fatto quello
scatto, mentre tutti gli altri erano bloccati al semaforo
rosso dei limiti.
115
STRUMENTI COMPENSATIVI
Gli anni corrono, spinti dai tempi dello studio e delle
verifiche, i consigli di classe si riuniscono per pagellini,
scrutini intermedi e valutazioni finali.
La prima superiore si rivela estremamente difficoltosa.
La scuola che ho scelto è difficile, e non lascia un
attimo di tregua, ma, quanto meno, non rischio di
annoiarmi.
Col passare dei mesi perfeziono il mio metodo di
studio, puntando molto sulla schematizzazione delle
lezioni.
Mi appunto ogni argomento, e cerco ogni metodo per
aggirare il problema della lettura.
Cerco quelli che vengono chiamati “strumenti
compensativi”, che non sono, semplicemente gli
strumenti informatici che leggono oppure i cd con il
testo della verifica: quelli possono essere metodi per
sopperire ad alcune problematiche, ma
indubbiamente finiscono per crearne altre.
116
Per chiarezza vi dico che gli strumenti compensativi
sono soggettivi: a un dislessico può essere utile la
calcolatrice; ad un altro il correttore automatico; ad un
altro, magari, basta che il professore legga ad alta
voce la consegna.
Nel mio caso, gli strumenti compensativi scolastici si
limitavano al tempo in più e, questa richiesta, non era
eccessivamente onerosa per i miei professori, poiché
io stesso mi facevo carico di richiedere l'ora
successiva all'insegnante che aveva lezione in quel
lasso di tempo.
In linea teorica, avrei potuto richiedere verifiche
differenziate, con la metà degli esercizi e, di
conseguenza, evitare di dover perdere l'ora
successiva; ma, così facendo, avrei solo alimentato i
rancori.
Mettendomi nei panni dei miei compagni di classe,
anche io non avrei accettato il fatto che una persona
fosse esonerata dal fare metà degli esercizi.
117
“...cavolo gli ultimi 3 esercizi erano impossibili, perché
se tutti abbiamo preso 5, il dislessico che, come noi,
non ha fatto quei 3 esercizi, deve prendere 6? ”
Questo è il punto: io dovevo fare tutta la verifica,
avere le stesse prove degli altri e il tempo necessario
per finirle, questa era giustizia e non cercavo
scappatoie.
Ad ogni verifica prendevo la mia biro e il mio foglio,
seguivo i professori nell'aula dove erano diretti e, lì,
completavo il compito.
Vi ho già detto quanto importante fosse per me
l'ascoltare le spiegazioni in classe, con esse avevo la
possibilità di apprendere senza dover fare affidamento
solo sui libri che per me erano territorio ostile.
Ecco: perdere una spiegazione andava a mio danno;
per questo motivo utilizzavo solo il tempo
indispensabile per finire la verifica e poi, rapidamente,
ritornavo alla mia classe per ascoltare la lezione.
In questo modo svolgevo le verifiche e nessuno, di
conseguenza ha mai avuto nulla da obbiettare.
118
Questo concetto vale per me, per i miei professori e
per i miei compagni di scuola, ma non crediate che sia
così per tutti.
Tutti i miei ragazzi del Gruppo Giovani riscontravano
problemi con i docenti che, spesso, si rifiutavano
categoricamente di dare loro ciò di cui avevano
bisogno.
Per giustificare questo rifiuto, affermavano che non
era corretto verso gli altri alunni, dicevano che dare
più tempo a uno significa dover dare più tempo a tutti
e che ciò non è possibile.
Parlavano di giustizia loro, mentre davano ad un
ragazzino un voto che non meritava affatto.
Questo, in teoria, avrebbe dovuto rendermi furente;
ma, in pratica, non fece altro che suscitare una
sconsolata pena.
Il mio sconforto non derivava dalla compassione per i
miei ragazzi, ma era, piuttosto, la triste constatazione
che i loro docenti non avevano capito una Tubo (non
è un errore di sintassi). In conclusione, adottai dei
metodi drastici, dicendo a quei ragazzi che i loro
119
professori dovevano imparare cosa fosse realmente la
giustizia, perché, come dice uno studioso americano:
“Giustizia non è dare a tutti la stessa cosa, ma ad
ognuno ciò di cui ha bisogno.”
Ora potrei parlarvi in termini molto filosofici della
giustizia, ma il succo rischierebbe di perdersi nella
complessità dell'intreccio di parole.
Ho deciso quindi di lasciarvi un mio testo, pubblicato
nel 2006 sul Forum Libero “dislessia-online”, nella
sezione Top Ten. Questo testo aveva lo specifico
obiettivo di chiarire il concetto di giustizia e di
strumento compensativo. Come vedrete, il tutto, è
molto schematico e, vorrete scusarmi, se esso
ribadirà concetti già detti; ma, se ora ve lo pongo, è
perché, realmente, il problema della giustizia viene
esibito come un ostacolo insormontabile e, spesso
alle famiglie e ai dislessici in prima persona, mancano
i termini corretti per dimostrare che si tratta di un falso
muro.
120
GIUSTIZIA
Alcune persone mi dicono che non si può “aiutare” un
dislessico per giustizia verso gli altri. Ora, vorrei
riflettere sul concetto di aiuto che viene richiesto dai
dislessici e, spero di chiarire che si tratta di una cosa
lecita e naturale:
La valutazione scolastica dell’alunno è suddivisa in
due parti che riguardano due soggetti: la scuola e lo
studente i quali prendono due diversi impegni:
Impegno da parte dello studente
1- acquisizione dei dati: lo studente studia e assimila i
contenuti e le conoscenze
Impegno da parte della scuola
2- verifica dei dati: tramite interrogazioni orali o scritti
di vario genere si verificano le conoscenze
Io, come tutti gli altri studenti, mi sono impegnato nel
primo di questi due punti, e l’ho fatto nel seguente
modo:
121
1- acquisizione dei dati
la mia velocità di lettura è la metà di quella normale,
quindi, per studiare da solo, ho bisogno di un tempo
doppio rispetto a quello normale.
Di conseguenza, se calcoliamo che, per
immagazzinare tutti i dati previsti dal programma
didattico, sono necessarie 3 ore di studio, mi servono
6 ore per concludere tutto.
Questa tecnica l'ho personalmente testata, e vuol dire
alzarsi alle 7, arrivare a scuola alle 8meno 10 e
tornare a casa alle 2, mangiare, studiare, mangiare
concludere l'ultima ora di studio alle 10
( poi mi lamento perché non ho una ragazza ).
PIANO B:
Se qualcun altro legge per me, risparmio il 50% delle
ore di studio e assimilo più informazioni di
conseguenza ho cominciato a:
- chiedere a mia madre di leggermi i libri di storia.
- proporre a un mio compagno di scuola il patto: “Tu
mi leggi ciò che c’è scritto sul libro di tecnologia e io ti
spiego che cosa significa”
122
In mancanza di tali supporti mi sono rivolto ad
un’efficace ancora di salvataggio:
- LA PRIMA PERSONA CHE TROVI.
È celebre la frase che ho pronunciato l’ultima volta
sull’autobus:
- Scusi signora, ho dimenticato a casa gli occhiali, mi
saprebbe dire cosa c’è scritto da pagina 26 a pagina
45? -
Fin qui tutto bene, ma ho notato che, anche se il mio
studio mi consente di conoscere alla perfezione un
argomento, le valutazioni che ricevo non riescono ad
essere sempre corrispondenti alla mia quantità di
conoscenze:
2- verifica dei dati
Nelle prove orali l’unico problema è la lentezza;
quando scrivo alla lavagna, perdo tempo per
controllare rileggendo con velocità sempre pari a ½.
Nell’orale non arrivo al 10, ma quando non sono
stanco riesco ad ottenere dei 9.
123
Nello scritto simili voti sono utopia pura.
Sullo stesso argomento, nel quale il giorno prima
avevo preso 9, mi ritrovo con valutazioni pari o
inferiori al 5.
Questo è dovuto al fatto che, le verifiche scritte, ti
spingono a leggere non solo le indicazioni, ma anche i
passaggi che fai e che devi riportare nel passaggio
successivo.
Di conseguenza, a parità di tempo, un dislessico con
la mia velocità di lettura, svolge il 50% della verifica
(se svolge tutto correttamente prende 5).
CONCLUSIONE :
Il punto 1, un dislessico lo esegue con grande fatica e
appoggiandosi ad altre strutture.
Il punto 2 necessita di un “aiuto”; dare al dislessico più
tempo, per far sì che possa concludere il compito,
leggere ad alta voce le consegne o, qualsiasi altro
strumento che compensi questo problema di
valutazione.
124
Mi dicono che non si può dare più tempo ad un
dislessico per finire la verifica, perché non sarebbe
giusto per gli altri.
Di solito rispondo : “ Gli altri hanno il tempo per finire
la verifica , il dislessico no.”
In via teorica, mi servirebbero 2 ore per finire una
verifica che ne prevede una , ma … è già difficile
trovare un docente che ti conceda 10, 20 minuti in più.
Questo è il mio caso... è uno dei meno gravi
probabilmente.
125
PARADOSSI
Molti dei miei professori, si stupiscono del fatto che io
ottenga risultati migliori nelle verifiche più complesse
rispetto a quelle semplici, ma è ovvio, se ci riflettiamo:
nelle verifiche semplici vengono dati, ad esempio 10
esercizi, mentre una molto più difficile può essere
anche solo un solo problema che richiede lunghi
tempi di riflessione.
I tempi di lettura ed esecuzione sono un problema per
me, poiché la lettura è lenta e, anche nell'esecuzione
è necessario rileggere quanto si scrive, ma, se si
tratta di ragionare, la difficoltà di lettura non influisce.
Facendo due più due, si capisce che una verifica con
20% lettura e 80% ragionamento, svantaggia il
dislessico solo per il 20% del tempo complessivo.
Quindi, poiché nel mio caso lo svantaggio provoca un
rendimento dimezzato in proporzione al tempo,
comprendiamo che, in tal caso, sono in grado di
svolgere in un'ora il 90% della verifica; mentre, nelle
verifiche che richiedono una percentuale di tempo più
126
elevata per la lettura (ad esempio le comprensioni del
testo o i test a crocette), risulto ben più svantaggiato.
Ovviamente sto banalizzando, omettendo di
considerare le difficoltà aggiuntive derivanti dalla
dislessia, ma, in linea di principio, questo schema
logico spiega il paradosso della facilità delle verifiche
difficili.
Se volessi trattare in termini spregiudicati l'argomento,
e consigliare ai docenti che verifiche proporre,
sicuramente li dissuaderei dal dare per scontato che
le verifiche a crocette siano le migliori.
È vero, in una classe di 30 persone, quasi tutti
prendono voti molto più alti nelle verifiche a crocette,
ma, considerando che siamo tutti adulti e vaccinati,
non credo vi sconvolgerà la mia spiegazione logica
del fenomeno:
le verifiche a crocette sono facili da copiare e,
passarsi le risposte sotto finissimi codici cifrati, è uno
scherzo per chi esercita professionalmente questa
attività.
127
Pertanto, tutta la classe prende bei voti in quel tipo di
verifiche; tutti tranne i poveracci che si trovano nel
primo banco.
Molto spesso alcune mamme mi hanno chiesto se far
mettere loro figlio nel banco davanti, poteva essere
utile per far si che potesse seguire meglio la lezione e,
quando mi chiedevano questo, io rispondevo che era
utile solo se la professoressa non faceva verifiche a
crocette.
Un altro paradosso molto pesante è quello della
memoria.
Io in particolare e molti dislessici in generale, siamo
dotati di una memoria a lungo termine, molto più
sviluppata rispetto alle persone non dislessiche e,
questo, si nota nella vita più che nella scuola.
Io riesco ad imparare un testo teatrale di Pirandello
dopo averlo ascoltato una volta e a memorizzare, a
livello spaziale, le sezioni di una biblioteca; ad
esempio.
L'ovvia perplessità che sorge, a livello scolastico, è:
“Perché, se hai una memoria tanto sviluppata, non
128
conosci a memoria tutti i vocaboli di inglese che ho
dato da studiare per la verifica?”
La domanda appare legittima, ma non lo è per chi
vede le verifiche con occhio attento.
Le verifiche sui vocaboli sono così strutturate:
a sinistra, i corrispondenti italiani dei vocaboli inglesi
più particolari trattati nei testi dell'anno e, a destra, lo
spazio bianco per scrivere il vocabolo inglese
corrispondente.
I vocaboli sono solitamente attorno alla quarantina;
conoscerli tutti, ricordare come si scrivono e,
soprattutto, finire in 30 minuti risulta abbastanza arduo
per tutti, ma l'evoluzione delle tecniche degli studenti,
che va di pari passo con l'evoluzione tecnologica,
consente di rimediare a tutto ciò.
Lo strumento utilizzato, è uno tra i più potenti mezzi di
conoscenza a breve temine: studio e la verifica riuniti
nel medesimo tempo.
Mi pare inutile dire che, questo straordinario mezzo è
volgarmente chiamato “bigliettino”, e che ha l'aspetto
129
di un innocuo pezzo di carta contenente tutto ciò che
ti serve sapere.
Il bigliettino viene nascosto nei luoghi più impensabili:
interno forato del banco, parte esterna della persiana,
risvolto dei pantaloni, biro, matita, gomma, temperino
e in alcuni rari casi, viene direttamente marchiato a
fuoco sul braccio.
Personalmente, devo ammettere che faccio piuttosto
fatica ad utilizzare questi strumenti; non perché
manchi di creatività, ma, semplicemente, perché
impiegherei troppo tempo per leggerli e verrei
scoperto vanificando tutto.
Nelle verifiche sui vocaboli ho sempre preso voti
pessimi e, probabilmente, è per questo motivo che mi
stanno particolarmente antipatiche, ma non credo sia
biasimabile affermare che non sono le prove più
attendibili del mondo.
Questi sono i principali paradossi, e spero di avervi
mostrato quanto, in fondo, non vi sia nulla di astratto
ne metafisico in queste situazioni.
130
Molte persone dicono che la dislessia provoca
situazioni spiacevoli e complicate all'interno della
scuola, ma questa frase è errata, poiché è la scuola a
provocare queste situazioni, quando ha a che fare con
ragazzi dislessici.
Si punta tutto su una scuola della velocità, e poco
sulla scuola dei contenuti, si prediligono verifiche a
crocette e pare che, solo agli esami di maturità, i
bigliettini non siano ammessi.
(Questa affermazione è stata scritta prima del 20
Giugno 2007 data dei miei esami di maturità).
131
IL CUORE DEL DEMONE
“Cos'è che manca ancora, cosa mi fa stare ancora
male?”
Il demone, nato dal mio passato, era rinchiuso nel mio
petto in un fragile riposo.
Non potevo distruggerlo, poiché era impossibile
cancellare l'ira che ancora covavo nel profondo
dell'anima.
Non volli annientarlo, perché distruggere il passato
avrebbe sgretolato le basi del futuro, quindi diedi luce
a quelle ali scure e il demone si trasformò trovando un
cuore.
Smisi di rinchiudermi nel desiderio di rivalsa, non mi
importava più di tornare alla mia vecchia scuola per
sbattere i miei successi in faccia a chi non credeva in
me.
Ora volevo solo garantire un futuro agli altri, ai
ragazzini che condividevano con me quella difficile
esperienza.
132
Mi buttai in quel grande progetto di un Gruppo Giovani
all'interno dell'A.I.D.
Ripresi nelle riunioni degli adulti la mia esperienza ed
esortai i genitori a portare i figli agli incontri per
ragazzi.
Superai le problematiche derivanti dalla timidezza e la
vergogna, utilizzando il famoso metodo della carta
che tanto ha affascinato i membri dell'A.I.D.
Il metodo era semplice: quando un genitore mi diceva
che avrebbe avuto piacere a portare suo figlio, ma
che questi aveva troppa vergogna per venire, allora
scattava il mazzo.
Io estraevo una carta da gioco
( preferibilmente un Jack ) e scrivevo su di essa il mio
numero di telefono.
Consegnavo la carta alla mamma e le dicevo che era
fondamentale che desse questa carta al figlio, e che
gli comunicasse le seguenti parole: “Jack ha detto che
tiene parecchio a questa carta; te la lascia per un
mese, poi devi andare da lui e restituirgliela, sopra c'è
il suo numero, se non riesci ad andare al prossimo
133
incontro puoi telefonargli e dirgli che gliela riporti la
prossima volta.”
Questo metodo pare il frutto di una mente bacata, e
forse è proprio così, ma dà esattamente i frutti che
questa mente intendeva ottenere.
Mettendomi nei panni di un ragazzo dislessico, che
prova vergogna a venire ad un incontro
dell'associazione, ho pensato che l'unica cosa che mi
avrebbe potuto spingere a fare una cosa simile, era
l'idea di entrare in quella sede con tre ferme
convinzioni:
1 sono qui non perché io voglio essere qui, ma perché
qualcuno mi ha detto di venire qui
(non pretendete nulla da me).
2 non è vero che non conosco nessuno, perché devo
cercare questo Jack, che è quello che mi ha invitato
(non sono l'ultimo arrivato).
3 nessuno mi ha chiesto di parlare di dislessia e
nessuno, a parte Jack, sa che sono dislessico
(zero rischio).
134
Ora vi chiederete perché ho messo l'opzione del
numero di telefono?
Niente di particolare: la possibilità di chiamarmi nel
caso in cui non possano riportare la carta è un
diversivo.
Sapevo perfettamente che nessuna persona, soggetta
alla vergogna, arriverebbe a prendere il telefono e
chiamare un perfetto estraneo.
Potrei dirvi che queste carte sono tornate tutte indietro
e che la timidezza non ha mai avuto il sopravvento,
ma sarebbe una menzogna.
Molti aderirono, e contribuirono a far crescere il
gruppo, altri, hanno ancora in mano la mia carta e non
hanno ancora avuto la forza o la voglia di giocarla.
Chissà cosa riserva il futuro?
Può darsi, che il mio gesto si sia risolto in semplici
carte perdute e rovinate; o forse, quando ne
sentiranno la necessità, questi ragazzi si ricorderanno
del mio gesto e sfrutteranno quel numero, che ho fatto
in modo di non cambiare.
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Si, devo ammetterlo, il trucco della carta è una
baggianata, ma come ho spesso ribadito “Le cose
semplici stanno in piedi a differenza di quelle che
abusano di organizzazione”.
Il Gruppo Giovani si regge sulla buona volontà e
sull'interesse, che i ragazzi dimostrano per le
tematiche trattate.
Non è un metodo, ne una terapia che si può
riassumere in un manuale su: “Come trattare un
gruppo di dislessici”.
Il gruppo è un movimento spontaneo, che ha distrutto
la barriera del “non si può”, del “non abbiamo le
capacità ne i mezzi per realizzare una cosa simile”.
Se potete giocatevi fino in fondo e il vostro fervore
spingerà il mondo ad aiutarvi.
Il Gruppo Giovani ha avuto un’evoluzione spontanea e
grandiosa, di fronte alla quale anche io dimostro
sorpresa.
Con il passare degli anni, il gruppo è cresciuto e
anche i suoi componenti furono soggetti alle mutazioni
che trasformano i bambini in ragazzi.
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A quattro anni di distanza, guardo ai più grandi( ai
veterani del gruppo, che furono i primi a seguirmi)
accorgendomi di quanto siano simili a ciò che ero io,
quando ho incominciato questa avventura.
Alcuni di loro, oggi, hanno 16/ 17 anni, e sono dei veri
e propri punti di riferimento per i più piccoli.
Sono amici positivi, che non pretendono di dare
risposte alle domande che i ragazzini pongono sulla
dislessia, ma, semplicemente, raccontano stralci della
loro esperienza in confidenza, con l'unico fine di
rincuorare e infondere fiducia ai più piccoli.
Su questo principio si regge la bontà e l'utilità di
questo gruppo: l'offrire la propria esperienza, e
rendersi disponibili ad aiutare ed accompagnare chi
sta vivendo ciò che hai passato tu.
Nel descrivere questo gruppo ai collaboratori, che di
anno in anno mi hanno offerto la loro disponibilità per
affiancarmi, ho spesso utilizzato il termine amicizia
poiché è su essa che il gruppo basa la sua azione
concreta.
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Lo scambio dei numeri di cellulare dà la possibilità di
contare su un amico che vive le tue stesse difficoltà, e
sa darti indicazioni o conferme.
Molto raramente, infatti, i ragazzi si aprono e parlano
dei loro problemi all'interno dell'incontro.
Loro preferiscono fermarti nei momenti liberi o
raggiungerti per telefono, e li dare sfogo a tutto ciò
che sentono e che li affligge.
Molte persone dimostrano perplessità di fronte alla
parola amicizia e, fra queste persone, sono compresi
anche i più qualificati tra i miei collaboratori.
L'amicizia pare, forse, un termine troppo generico e
non dà chiare indicazioni sull'attività che realmente si
svolge in questi incontri, ma io devo ribadire che, tale
termine, è l'unico in grado di spiegare il grande
successo di questa iniziativa.
Esiste un punto centrale: “Il gioco collettivo”, ed è in
tale momento che le amicizie prendono forma.
Inizialmente, questi giochi erano comunissimi giochi
da oratorio estivo, ma, successivamente, grazie alla
disponibilità di collaboratori qualificati ed esperti,
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abbiamo acquisito un'ampia e interessante possibilità
di varianti, che mantennero comunque l'originale
obiettivo: l'incontro.
Ai ragazzi più piccoli non importa quale gioco tu
proponi, gli basta sapere che tu sei lì per giocare e
divertirti insieme a loro.
Ai ragazzi più grandi non importa se il gioco è troppo
banale per loro, gli basta vedere il sorriso dei più
piccoli e comprendere la bellezza di ciò che stanno
offrendo.
Come avrete intuito, credo profondamente in questo
gruppo e questo è dato dai rimandi positivi che ho
sempre ricevuto.
Io non posso descrivere quanto questa iniziativa abbia
inciso sui suoi diretti partecipanti, ma posso ricordare
con chiarezza il forte mutamento nell'espressione dei
genitori. Ho visto madri che, al gruppo adulti,
raccontavano i propri figli con l'immagine dei disperati,
immersi fino al collo in problemi psicologici.
139
Quelle stesse mamme le rivedo il mese successivo,
mentre portano il proprio figlio al gruppo e, la loro
espressione, è completamente differente.
Non parlano più di problematiche psicologiche e, pare
che esse siano completamente svanite.
Per assurdo, un gruppo che si impone un fine non
terapeutico, diventa per i ragazzi un’esperienza che
da benefici comparabili alle migliori terapie.
Riflettendoci è ovvio: noi chiamiamo problemi
psicologici quelli che in questo caso, sono semplici
risvolti derivanti da una esperienza negativa.
Definiamo problema il fatto che, un ragazzo si senta
solo di fronte ad una difficoltà che crede essere una
sua anomalia.
Definiamo problema il fatto che non si senta adeguato
di fronte agli altri, che vede come diversi da lui.
Definiamo problema il fatto che si vergogni di essere
dislessico. Se questi sono problemi derivati da un
ambiente scolastico allora è giusto che sia un altro
ambiente a sfatare ciò che la scuola erroneamente fa
pensare. Questo non è un processo complicato, e si
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risolve spesso in poco più di un gioco e una stretta di
mano. Io non ho inventato nulla; non ho creato una
terapia, ne un particolare modo di pensare. Ho
semplicemente ripreso ciò che, ogni persona dotata di
senno, farebbe; ciò che ogni dislessico adulto direbbe
ad un ragazzino per aiutarlo nel suo tragitto. Un punto
di inizio dal quale è possibile far germogliare quella
consapevolezza che eviterà ai nostri figli di rivivere le
nostre esperienze negative.
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LE NUOVE ALI
Gli anni passano, le stagioni cambiano, le verifiche
sfrecciano, le candeline sulla torta sono già 19.
Le superiori sono state una sfida difficile, ma credo sia
valsa la pena di lottare.
“Verrà sbattuto fuori entro due settimane”, dissero
cinque anni fa e per tutti questi anni, mi è parso di
attendere il momento della riscossa.
Già mi vedevo con in mano le mie cinque pagelle
prive di debiti, le quattro pagine dei primi della classe
strappate dai giornali e la medaglia per i meriti
scolastici stretta nel pugno (va bene mamma, userò
una sportina). Mi vedevo tornare alle medie da
vincitore, per rovesciare tutto il mio disprezzo sopra
chi non aveva esitato ad umiliarmi.
Mi vedevo in veste di giustiziere, vendicatore e
punitore, ma…no… quei vestiti non fanno per me.
Non sarei altro che un inutile folle, se continuassi ad
alimentare il male dell'umiliazione e, sarebbe triste,
pensare che i risultati ottenuti in questi cinque anni di
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sfide siano finalizzati solo al compimento di una mia
personale rivalsa.
Non può essere solo questo e non lo può essere,
perché io ho lottato per qualcosa di più grande. Ho
lottato per dimostrare una verità.
Ho lottato per dimostrare ciò che i dislessici possono
fare. In questi cinque anni di superiori ho parlato in
diverse conferenze, portando la mia esperienza e la
mia opinione. Spesso ho toccato il punto dell'incontro
fra i giovani e, altrettanto frequentemente, ho discusso
della formazione degli insegnanti.
Ho sempre ricevuto scroscianti applausi e ho avuto
anche la soddisfazione di parlare ad un congresso
nazionale, ma le mie parole hanno un vero valore solo
quando vedo tra il pubblico scorgo i miei ragazzi che,
tirando la manica dei genitori, bisbigliano: - Io quello lo
conosco, quello è mio amico. -
Tutto cresce e si fortifica per uno scopo.
Il calciatore vive per la partita, l'atleta per le olimpiadi
e il guerriero per la battaglia.
Io vivo per momenti simili.
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Vi ricordate il primo capitolo di questo libro?
Quella, è una lettera che risale a più di un anno fa. Ho
scritto quel testo per chiarire, in termini pratici, ciò che
la dislessia comporta. Intendevo utilizzare quelle
parole per ribattere alle oscenità che spesso si
leggono sui giornali. Vi sono articoli e commenti che
non hanno nulla a che fare con la dislessia, ma che, in
un ambiente dove la questione è poco conosciuta, si
rivelano fortemente incidenti e distruttivi. Proposi quel
testo ai giornali che lo rifiutarono per due fondamentali
motivi:
1- Io non sono laureato (né dott. né proff.)
2- Il testo risultava troppo lungo.
Nonostante ciò non mi placai. Sapevo che, l'unica
arma contro la disinformazione, era la forza dei fatti:
“La limpida cronaca della dislessia”,
tale era il nome che avrei voluto dare alla mia lettera;
ma sapevo che, un nome tanto forte, non avrebbe
funzionato. Chiamai la lettera :
“Non leggo ma lasciatemi scrivere” e la pubblicai su
internet attraverso il forum : www.dislessia.org/forum
144
Attraverso il forum, quella piccola lettera ha potuto
circolare fra i genitori di tutta Italia.
Alcuni di loro l'hanno letta hai figli, altri l'hanno
fotocopiata e distribuita ai professori, per dare loro
una vaga idea di cosa si prova quando si ha a che
fare con questa difficoltà.
Altri, semplicemente, l'hanno scaricata e inviata ad
altri siti. Ogni tanto, trovo questo mio scritto posto con
il nome di “Io dislessico” all'interno di siti per docenti
(più di 10.000 visitazioni). Ho scritto molto altro
all'interno del forum libero (di cui oggi sono
moderatore) e ho continuato, per mezzo di esso il
progetto del Gruppo Giovani che, durante l'ultimo
convegno dell'A.I.D., ha assunto forma nazionale. Il
forum mi ha dato molto; mi ha dato le ali di cui avevo
bisogno per raggiungere ogni scuola d'Italia e
mantenere la mia promessa.
Con questa sicurezza e questa serenità, oggi mi
incammino nell’oscurità degli esami e, se questi
saranno un successo, il merito sarà vostro ragazzi.
[19 Giugno 2007 sera che precede gli esami di maturità]
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PROMESSE
Lo so, ora voi vi aspettate che io vi descriva l’esame,
le ore di studio, l’immane fatica delle prove e,
soprattutto, il risultato in centesimi, ma temo che
dovrò deludervi; ancora non so nulla e non voglio
annoiarvi con pagine dense solo delle mie emozioni.
Ciò che dovevo dirvi sulla dislessia l'ho detto e la mia
furia da Demone Bianco può placarsi poiché ora so
che sapete.
Parlo con voi senza conoscere la vostra identità:
potreste essere padri o madri di dislessici, esperti o
semplici curiosi, docenti che amano il loro lavoro al
punto da scomodarsi a leggere questo libro.
Non vi ho chiesto chi siete, non solo perché mi
sarebbe stato impossibile, ma, soprattutto, perché i
libri non ti chiedono nome e cognome, né che lavoro
fai. I libri ti trasformano semplicemente nel soggetto
del racconto e, ti riportano a te stesso solo quando
raggiungi la parola fine. Mentre leggevate avete
vissuto ciò che ho vissuto io, avete corso dietro al mio
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autobus e subito le stesse ingiustizie che ho subito io;
in parole povere, vi siete momentaneamente
trasformati in persone dislessiche.
Voglio approfittare di questo momento e prolungarlo il
più possibile, affinché voi conserviate questo ricordo e
lo trasformiate in sguardo. Parlo di uno sguardo nuovo
nei confronti dei vostri amici, figli o alunni dislessici di
cui ora conoscete le difficoltà. Ho detto che non so
chi siete, quindi, è possibile, che voi siate i miei
professori delle medie; in tal caso voglio approfittare
per dirvi che non provo rancore né ira verso di voi, ma
sono, al contrario, consapevole che i vostri errori
derivano solo da una mancata conoscenza del
problema che, ora, spero si sia appianata.
Io sono certo che, quando avete deciso di
intraprendere la strada dell'insegnamento, l'avete fatto
con l'intento di farvi portatori di conoscenza e, quindi,
sono sicuro che farete fruttare e divulgherete ciò che
ora sapete sulla dislessia.
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Avete un'opportunità immensa: quella di sconfiggere
un'ingiustizia che deriva dall'ignoranza che ruota
attorno al termine dislessia.
Oggi, voi tutti (genitori, insegnanti e curiosi) potete
parlarne al vostro collega, al vostro vicino di casa e,
se avete problemi seri anche con alberi, cestini e
oggetti inanimati di ogni genere, non importa, ciò che
realmente conta è che ne parliate, perché è assurdo
che in Italia esistano ancora ragazzini dislessici che
vengono bocciati, tartassati e definiti ingiustamente
dei lazzaroni. Io ho promesso a me stesso che questo
non avrebbe dovuto capitare più, e sto lottando con
tutte le mie forze per mantenere tale promessa.
Oggi voi non lo credete, ma, domani, qualcuno vivrà
in un mondo costruito attorno al pilastro delle vostre
scelte, quindi vi esorto ancora ad osservare le vostre
mani quando chiuderanno questo libro e ad utilizzarle
per gettare le basi di questo benedetto futuro.
Come scrisse un mio amico “un altro mondo è
possibile” costruiamolo un passo dopo l’altro.
Jack

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